Specchio
della psiche e della civiltà
GIUSEPPE PERRELLA
NOTE E
NOTIZIE - Anno XVIII – 18 dicembre 2021.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]
(Ventitreesima
Parte)
46. Con occhi nuovi si vedono
cose nuove: gli aspetti reali della transizione nei vissuti del Seicento.
Il Seicento
può considerarsi un’epoca di transizione tra la concezione rinascimentale della
bellezza quale essenza interiore e missione spirituale dell’arte e quella
del secolo delle parrucche incipriate, in cui diventa per la maggioranza forma
esteriore strumentalmente usata per ottenere gradimento e ammirazione
per la persona stessa e per gli oggetti che possiede. Un tempo durante il quale
si passa dal modello di Michelangelo a quello del nobile mondano. Infatti, per
decenni i precettori avevano portato ad esempio il grande facitore di bellezza
che, per lavorare alla Sistina giorno e notte, si trascurava e dormiva sempre
con gli stivaletti al piede, così che quando provò a toglierli si accorse che
si erano attaccati alla pelle. Nel Settecento, gli stessi precettori impiegavano
ore a imbellettarsi prima di incontrare gli allievi, ai quali insegnavano che curare
l’aspetto non era vanità, ma saggia applicazione per ottenere il primo degli
strumenti del potere.
È evidente e perfino banale rilevare il passaggio dalla
prevalenza spirituale del “piacere a Dio” alla prevalenza materiale del “piacere
agli uomini”, così come è facile rilevare che gli obiettivi dichiarati dell’educazione
e della formazione erano cambiati poco, ma si era andata affermando un’implicita
separazione tra il sapere oggetto di studio e la pratica delle
relazioni sociali, a immagine e riflesso di quella doppia morale eminentemente elisabettiana,
ma in qualche misura adottata da tutti i governanti, che separava la teoria,
quale rappresentazione della conoscenza, dalla prassi, quale esercizio
del potere.
E nel Seicento avviene questa transizione; nel
secolo in cui lo studio e la conoscenza hanno ancora sedi privilegiate in
edifici religiosi e sono prelati in maggioranza i docenti universitari, si
insegna sempre più spesso a privilegiare la forma entro cui si rappresentano
funzionalmente e spesso strumentalmente i saperi, preferendola alla sostanza
che non appare agli uomini ma solo agli occhi di Dio. Per chi ci crede. E questo
è il punto: se non si crede realmente, anche a dispetto della tonaca che si
indossa, nell’esistenza di un Ente supremo, trascendente, presente alla coscienza
e al quale si dà implicitamente conto in ogni istante della vita, la verità si
identifica con la forma sensibile, che nelle cose umane può essere la
rappresentazione condivisa di una realtà e della sua interpretazione. Se non c’è
Dio, non c’è amore eterno e bellezza paradisiaca, ma solo amor profano ed
estetica del gusto.
Non è cosa da poco, perché la questione, anche se
bellamente ignorata per incoscienza collettiva, è massimamente espressa ai
nostri giorni, nascosta da un mélange di messaggi, immagini e discorsi
stereotipati che coprono la realtà con le varie e variopinte versioni dell’immaginario
politico-economico-commerciale.
Dunque, nel Seicento si ha questa transizione. Come avviene?
In tanti modi diversi, poco indagati dagli storici stessi, modi che ci appaiono
come stridenti contraddizioni e varietà difficilmente riconducibili a precise
regole, perché frutto di sviluppi non programmati, effetto di cause seconde, azioni
espresse come il combinarsi della casualità delle mode – ossia forme non
gestite consapevolmente – con le necessità indotte dagli eventi.
Fin da quando a scuola studiamo la storia, ci
rendiamo conto che, se non ci accontentiamo di ricordare la date delle guerre,
i nomi dei re e i confini degli imperi, e vogliamo capire qualcosa della storia
della civiltà, della vita delle persone, dei pensieri dietro i costumi, in breve
della realtà umana di un’epoca, ci accorgiamo sempre di trovarci di fonte ad un
insieme composito ed eterogeneo. E, soprattutto, leggendo documenti dai quali
traspaiono sentimenti, passioni, desideri, progetti e concezioni dei
protagonisti del passato, ci rendiamo conto che le schematizzazioni con etichette
d’epoca sono solo un modo utile per distinguere, riconoscere e ricordare concetti
di una materia scolastica; si comprende che si tratta di caratterizzazioni di aspetti
prevalenti. Farli assurgere a chiave di lettura della realtà può significare ignorare
la multiformità sempre presente nelle società umane, quella scomoda eterogeneità
che rende difficile generalizzare per comprendere. Infatti, l’epoca che ci
sembra meno decifrabile è sempre quella che abbiamo approfondito.
Per questo, non proverò a ricondurre a nessun
particolare schema costruito come artificio interpretativo i fatti che ho
appreso, direttamente o indirettamente, dai documenti dell’epoca, ma ne
riferirò in sintesi, nella loro scomoda contraddittorietà, per riflettere
insieme coi lettori sulle tracce degli aspetti reali di questa transizione.
47. Dal Circolo di Oxford
in viaggio e in dialogo verso il Paradiso dei Diavoli. Seguendo
il passare degli anni nella cronologia del secolo, le vicende inglesi assumono
sempre più rilievo per l’intera Europa perché, grazie soprattutto al Circolo
di Oxford, in Inghilterra si stava sviluppando una nuova concezione della
scienza basata sul metodo sperimentale galileiano e rappresentata dalla nuova
disciplina di studio della materia, la chimica, che Robert Boyle stava fondando
tra le mille difficoltà di chi portava la luce della ragione nel buio dei
laboratori magici degli alchimisti. Dopo aver imitato per secoli gli Italiani e,
in parte, i Francesi, gli Spagnoli, i Tedeschi e altri popoli continentali, gli
Inglesi sembravano ormai aver acquisito una propria identità culturale e, grazie
al benessere economico in continua crescita dal periodo elisabettiano, le fazioni
in lotta ideologica, religiosa e culturale potevano finanziare le proprie
battaglie, alimentandole al punto da farne eventi rappresentati quali epici
scontri di risonanza continentale.
In proposito, mi piace notare una peculiarità inglese: mentre nel continente le dispute e le
controversie filosofiche e scientifiche, come abbiamo visto per Galileo Galilei,
avvenivano con dei “botta e risposta” costituiti dalla pubblicazione di saggi e
trattati, che richiedevano mesi o anni per essere scritti, in Inghilterra le
controversie si sviluppavano in modo rapido e serrato attraverso lo strumento del
pamphlet, ossia fogli di rapida pubblicazione, stampa e diffusione, in
un modo che sembra il precursore degli odierni dibattiti sui social media.
Questo mezzo di comunicazione, che abbiamo incontrato
a proposito di Anne Greene e del racconto figurato del suo ritorno alla vita
dallo stato di morte apparente seguito alla sua impiccagione, era adottato dai
detrattori del Circolo di Oxford e dai suoi membri per rispondere a costoro.
A Oxford, quando Thomas Willis, lo scopritore del poligono
arterioso cerebrale e protagonista della rianimazione di Anne Greene, studiava
la causa delle febbri, giunse, come amico di Christopher Wren, un ragazzo di
nome Robert Hooke, preceduto dalla fama di aver studiato e compreso in una sola
settimana tutti e sei i libri di Euclide, all’età di sedici anni. Hooke divenne
subito parte di quel sodalizio di ingegni, che aveva sostituito Aristotele e Galeno
con Galileo Galilei e Thomas Harvey e che, anche grazie a Robert Boyle,
rappresentava la nuova scienza, senza cedere alla tentazione di farne una
religione come accadeva ai nuovi atei di quel tempo. Il Circolo di Oxford
rimane fedele alla sua radice religiosa cattolica e, proprio per questa ragione,
diviene bersaglio di invettive, azioni politiche e veri e propri attacchi volti
alla sua distruzione da parte delle lobbies protestanti, puritane e atee,
non di rado coalizzate come nemiche dei cristiani fedeli alla confessione
romana.
Il Circolo stava di fatto realizzando in miniatura l’utopia
della Nuova Atlantide di Bacone[1], creando
in Inghilterra uno spazio di pace, serenità e armonia in cui la nuova scienza
migliorava la vita, arricchendo di conoscenza e di utilità pratica la
spiritualità profonda e solidale di una rete di amici, che non desiderava altro
che condividere questo dono di sapienza col mondo circostante. Questa realtà di
“isola felice” dava fastidio a molti, e sicuramente a tutti coloro che vedevano
il Circolo come un’emergente minaccia per la propria egemonia culturale nel
paese. La perdita di prestigio e posizioni egemoniche per costoro voleva dire
perdita del potere di manipolare le coscienze e indirizzare i grandi
investimenti finanziari.
I puritani, che spesso si erano dichiarati
favorevoli alla nuova scienza sperimentale di Galileo, Boyle e Harvey, in
quanto ritenevano potesse conferire benessere e prosperità all’Inghilterra,
attaccavano i membri del Circolo di Oxford perché non li vedevano calati nella
scienza come missione divina e ritenevano che si divertissero troppo nello
studio, cosa per loro deprecabile e peccaminosa. Alcuni puritani condannavano la
loro “ossessione nell’uso del microscopio” e lo studio degli insetti,
diffondendo questa formula denigratoria: “Sono buoni a fare due cose: ridurre
il benessere comune e ingrandire i pidocchi”[2].
È vero che per alcuni radicali il Circolo di Oxford
era solo una distrazione dal compito principale di distruggere le università[3], ma
per molti la distruzione degli istituti cristiani cattolici di studio
universale era un mezzo per eliminare proprio il potere di quei liberi ingegni
che loro non potevano strumentalizzare: William Dell, un ministro molto
influente, denunciò in Parlamento che la vita nelle università era una “quotidiana
conversazione con i pagani, i loro vani filosofi e i loro sudici ed osceni
poeti”[4], e dunque
propose di abbandonare Oxford e Cambridge e costruire nuove università in ogni
città dell’Inghilterra, dove gli studenti avrebbero potuto ricevere
insegnamenti realmente edificanti. John Webster, ministro radicale, sferrò un
attacco molto duro contro la teologia scolastica di Oxford, dichiarando: “Cosa
altro è se non un confuso caos di inutili, frivole, infruttuose, banali, vane, strane,
impertinenti, ingarbugliate, empie, irreligiose, spinose e infernali dispute,
alterchi, domande, e trastulli senza fine, moltiplicati e portati avanti fino
alla mostruosità e alla nausea?”[5]. Il
Circolo di Oxford provò a difendersi con un pamphlet scritto da Wilkins
e Ward, in cui si mettevano in evidenza errori e
contraddizioni di Dell e Webster, e poi si smascherava il plagio di Gassendi da Parte di Webster. Lo scritto contribuì ad
evitare per il momento che la decisione parlamentare di prendere provvedimenti
contro le università fosse rinviata, ma non risolse la questione.
Un altro problema si profilò, minacciando il venir
meno di un importante supporto culturale al Circolo costituito dalla simpatia
dei giovani, per il loro essere all’avanguardia della conoscenza e precursori
del futuro, quando l’attenzione delle nuove generazioni fu attratta da un
movimento che mandava in soffitta lo stile di vita delle città universitarie.
Un mattino del 1654 Elizabeth Fletcher, una ragazza
di diciassette anni che apparteneva a un gruppo che si definiva “Society of
Friends”, andò a percorrere le vie di Oxford completamente nuda, passeggiando e
correndo, per testimoniare un nuovo credo e un nuovo stile di vita[6]. Si può
facilmente immaginare l’effetto prodotto, con reazioni all’estremo opposto, di
censura dei puritani per quell’opera del diavolo e di approvazione
incondizionata dei suoi coetanei più spregiudicati, ma soprattutto non è
difficile immaginare quanto l’episodio avesse monopolizzato l’opinione pubblica
se oggi, che siamo nel ventunesimo secolo, accade che quando uno stripper
o una stripper attraversa di corsa il centro urbano finisce in prima
pagina e appare in tutti i notiziari in una città come San Francisco, dove
sulla Taylor Street d’estate sfila ogni giorno gente quasi priva di indumenti.
Quando Elizabeth Fletcher fu interrogata sul suo
comportamento, per il quale non era stata esclusa la malattia mentale, spiegò
che intendeva mostrare a tutti i principi della sua setta: la fede non viene
dalla teologia ma da una luce interiore che può sopraffare un’anima fino a
scuoterla, a farla tremare, nelle sue parole “can make it
quake”. Alla domanda su come la setta concepiva le
tre maggiori confessioni, la ragazza rispose che ciascuno è sacerdote di sé
stesso. Dall’espressione usata da Elizabeth Fletcher, can make it quake, venne il soprannome
Quakers, in italiano “quaccheri”.
Il nuovo a Oxford non erano più i giovani che
conoscevano Euclide a memoria e andavano a messa la domenica, ma i quaccheri
che, approfittando della politica di Cromwell sulla tolleranza religiosa, giravano
nudi per le strade, bruciavano le Bibbie in pubblico e interrompevano le funzioni
sacre entrando in chiesa e urlando in modo da non consentire più ai fedeli di
ascoltare il sacerdote.
Si comprende che per il Circolo di Oxford era un
momento molto difficile, soprattutto se si aggiunge che in quei giorni ebbe
inizio la dolorosa controversia con Thomas Hobbes, profondamente stimato e
rispettato dai membri del sodalizio oxfordiano, che si videro inaspettatamente
attaccare in maniera dura dal filosofo, divenuto in quel periodo un acerrimo militante
anticattolico.
Fu presa all’unanimità la decisione del Circolo di
mandare un suo membro come osservatore nel Regno di Napoli, dove l’indiscussa
fedeltà al cristianesimo secondo la purezza teologica delle origini non era
disgiunta da indipendenza politica dalla Santa Sede, per apprendere principi e
procedure utili alla difesa di spiritualità e cultura dell’antico ateneo inglese
di matrice francescana. Gli Inglesi conoscevano bene la storia dell’arrivo in Europa
della predicazione evangelica e comprendevano l’importanza di una tradizione
che aveva preceduto cronologicamente quella romana. L’Apostolo Pietro, diretto
in Italia, sbarcò infatti a Napoli, dove fu accolto da una cittadina di origine
ebraica di nome Candida, ammalata di un male allora ignoto e inguaribile, per
il quale chiese la guarigione a Simon Pietro, il pescatore che Gesù aveva posto
a capo e fondamento della Chiesa. Candida fu guarita, e allora pensò bene di
condurre al capo degli Apostoli un altro ammalato grave, per il quale si erano
perse le speranze: un Napoletano di nome Aspreno. Si era
al tempo di Traiano, ovviamente nel I secolo d.C., e ancora nessuno dei popoli
dell’Impero Romano conosceva il Vangelo. San Pietro pregò e guarì anche Aspreno, che divenne il primo Vescovo della città di Napoli
e fu, in assoluto, il primo presule cristiano d’Europa.
L’inviato del Circolo di Oxford raggiunge Genova e
qui si imbarca su grande veliero diretto a Napoli. Durante tutta la traversata l’accademico
studia e ripete le più comuni frasi in latino secondo pronuncia italiana,
ripassa la traduzione delle locuzioni inglesi tipiche dei discorsi filosofici e
teologici e appunta su un diario le cose da fare una volta ai piedi del Vesuvio,
così come le domande da porre ai colleghi partenopei[7].
Giunta la nave in vista del golfo di Napoli, gli si
avvicina, in un’elegante giubba con fregi dorati, l’uomo che lo aveva accolto
sulla nave a Genova, e gli chiede[8]:
“Andato bene il viaggio? Ormai sta per finire.”
E l’Inglese, dopo un cenno di assenso col capo, e
squadrandolo dal cappello agli stivali: “Capitano?”
“No.” Risponde sorridendo l’altro.
“Timoniere?” Prova il passeggero.
“No, il timoniere non lascia mai il timone in queste
circostanze. Sono un navigatore, cerimoniere e interprete di bordo.” Poi,
andandosi a sedere accanto a lui: “Ho letto la tua carta di imbarco: abbiamo la
stessa età, solo pochi giorni di differenza, dunque ho pensato che, se tu eri a
Londra cinque anni fa, è possibile che abbiamo frequentato gli stessi club e le
stesse persone…”
“My goodness, Londra! Ecco
perché parli così bene la mia lingua. Certo, ero lì in quegli anni. Alloggiavo in
un appartamento comprato dalla mia famiglia quando ero studente, in Pudding Lane.”
“Anch’io. Io abitavo accanto al fornaio, sai la
Thomas Farriner’s Bakery.”
“Heavens! Forse ti ho
visto. Eri tu l’Italiano che andava in giro sempre con due dame, una bionda
francese e una mora spagnola?”
“Macché, erano due attrici italiane, che si fingevano
straniere per gioco! E tu, venivi alla Bakery?”
“Come avrei potuto resistere al richiamo delle
brioches appena sfornate con lo zucchero cotto delle Antille, profumate di zenzero
e cinnamomo?”
“Accidenti! È piccolo il mondo! Così ora vai a
visitare il Regno dei Cento Castelli.”
“Pare proprio di sì.” Sorrise il passeggero d’oltremanica,
assaporando ancora il piacere dell’incontro inaspettato.
“Vedrai, ti piaceranno i Napoletani.”
“Come sono?”
“Come me.”
“Ma tu non sei più simile agli Italiani del Ducato
di Savoia?”
“Siamo gente di mare.”
“Che vuol dire?”
“Che abbiamo molto in comune fra noi, anche quando l’uno
non capisce bene l’idioma dell’altro: io sono più simile a un Greco o a un Vichingo,
che a uno del Ducato di Savoia. Ora anche i Savoiardi per legge non possono più
parlare francese ma devono parlare come noi la lingua italiana di Dante, nata
dal volgare fiorentino, che noi parliamo da secoli per gli stretti rapporti con
Pisa, ma non è questo che ci fa uguali: quelle sono persone che non vivono di
mare, per il mare, sul mare… È gente diversa.”
“Com’è la gente di mare?” Chiede curioso l’Inglese.
“La gente di mare è scaltra, veloce di mente, parla
molte lingue, impara e insegna continuamente…”
“Cosa?”
“Usi, costumi, tradizioni e nozioni geografiche e topografiche.
Noi gente di mare siamo ospitali e ci tramandiamo l’arte dell’incontro: sentiamo
il fascino delle terre rare e lontane in tutti quelli che vediamo approdare, ma
nessuno per noi è uno straniero.”
“Un modo speciale di sentire lo ‘stare al mondo’, i rapporti umani…”
“Una realtà che ha lontana origine nel tempo e
risale a quando le repubbliche marinare di Pisa, Amalfi, Genova e Venezia
dominavano i mari, non so se ne hai mai sentito parlare.”
“Certo. So che per secoli il Regno d’Inghilterra ha
pagato un tributo alla Gloriosa Repubblica di Genova per poter impiegare la
croce e le insegne genovesi di San Giorgio. Da noi si dice che tra le repubbliche
marinare italiane Genova era speciale, forse perché a quei tempi aveva più
potere. In cosa siete diversi voi Genovesi?”
“In tutto. Soprattutto nell’origine delle risorse
che hanno fatto grande la Repubblica: Genova ha finanziato Genova. Non era così
per le altre. Pisa, ad esempio, aveva la ricchezza delle famiglie di Firenze
che avevano bisogno del mare; per secoli si sono combattute fra loro, ma erano
tutti imparentati. Ancora oggi è così. Tanti Fiorentini hanno proprietà e
imprese in Pisa. Hai sentito parlare di Galileo Galilei?”
“Certamente. Ho studiato i suoi libri.”
“Bravo. Ma Galileo, Pisano, veniva da una ricca famiglia
fiorentina. Pensa, il padre di Galileo, musicista e studioso di fisica del
suono, ha finanziato la Camerata dei Bardi che ha inventato il melodramma, poi
esportato in tutto il mondo, e ha sostenuto insieme con altre famiglie
fiorentine le spese di ventidue anni di lavoro dell’Accademia della Crusca per
fare il vocabolario. In passato a Firenze la famiglia Vespucci, amica dei
Medici, ha finanziato Amerigo Vespucci per il viaggio in America dopo Colombo;
così come facevano i Verrazzano, anche loro benestanti fiorentini.”
“E Amalfi?”
“Appunto, ci stiamo andando a Partenope! Amalfi aveva
le ricchezze di centinaia di nobili, che a Napoli erano giunti da tutta Europa.
Anche i Veneziani… erano ‘gran signori’ con le ricchezze e i tesori di cui si
impadronivano o che confiscavano in Oriente, e si facevano finanziare dai sovrani
di quelle terre, promettendo potere in Italia, che spesso non potevano
concedere in quanto potenza prevalentemente mercantile.”
Rimasero per un po’ in silenzio a guardare le tinte
intense del cielo e del mare: il puro cobalto della tersa volta aerea del
giorno sereno che si specchiava sulla distesa cangiante dal turchese vicino all’oltremare
lontano. Poi, il cattolico di Oxford, in modo diretto:
“Tu credi in Dio?”
“Ma scherzi? Io volevo farmi prete… L’amore per il
mare era troppo forte: avrebbero dovuto farmi una chiesa su una nave…”
“Coi fedeli marinai!”
“Esatto! Tornando al serio, vedi, la fede in mare è
tutto: le incognite del tempo e della navigazione non permettono la superbia di
confidare solo in sé stessi. Poi sul mare tu sei a contatto con Lui. Il sole è
un piccolo riflesso del Suo occhio, il cielo e il mare un piccolo frammento del
Suo Corpo…”
“Poetico.” Nota l’Inglese.
“Macché? È la verità.” Sorride il Genovese.
“Che ne dici, è vero che il mare insegna a vivere?”
Domanda l’Anglosassone.
“Bisognerebbe attraversare la vita così come si
attraversa il mare. Il cristianesimo è come il mare, perché ti rende consapevole
ad ogni istante e ti dà uno scopo. In mare tu sai sempre che sei in viaggio;
sulla terraferma qualcuno può illudersi di essere arrivato, in mare devi sempre
tenere la rotta se no vai alla deriva. E tutto quello che fai per navigare
serve a te ed è un dono per gli altri che sono sullo stesso legno; in
navigazione tu hai sempre uno scopo: raggiungere la terra.” E, così dicendo, il
Ligure si volge a scrutare, distogliendo gli occhi dal mare, lo sguardo dell’interlocutore,
che stava già rispondendo:
“Molto suggestivo e appropriato questo paragone. Il
cristianesimo dà senso al percorso della vita…”
“Di ogni vita – interrompe e precisa il navigatore –
e dunque dell’umanità.”
“Vero, giusto – commenta assentendo il passeggero –
ma tu sai chi ha coniato la parola ‘cristiano’?”
“No, non me lo sono mai chiesto.” Dichiara sincero l’Italiano.
“San Paolo, per specificare che noi apparteniamo
alla persona di Cristo, perché viviamo la Sua vita nella nostra; non aderiamo
astrattamente ai precetti di una morale ma imitiamo una persona. Le altre
religioni, come lo stesso Ebraismo, consistono nella pura adesione a una
tradizione, alla Legge della Torah, ma la nostra chiede di modellare l’identità
su quella dell’Incarnato, perché Lui stesso ci ha detto di imitare la perfezione
divina nel Padre Celeste e, come ha scritto Giovanni Evangelista, Dio nessuno
lo ha mai visto, Gesù Cristo ce lo ha rivelato. Dunque, imitando Cristo
seguiamo il Padre.” Spiega l’Inglese.
“Il Modello… – riflette il Ligure – e forse per
questo i protestanti insistono nel censurare i santi come modello?”
“Forse. – Ma poi cerca di andare al cuore dell’attualità
degli eredi della ‘Riforma’ e spiega – Loro, di fatto, vogliono spostare l’asse
di senso della fede dal valore dell’antropologia cattolica fatta di santi
e papi a quello di un intimismo individuale di rapporto con l’essenza
concettuale del Cristo.”
“Anche loro – osserva il navigatore – hanno buone
ragioni, evidenti in Italia quando si assiste a quelle celebrazioni popolari
dei santi che lasciano trasparire le forme dei riti pagani del sostrato, o quando
si legge la storia di Papi e Antipapi come monarchi in contesa…”
“Sicuramente – conviene il passeggero – tuttavia,
eliminare il modello di Maria per le donne e cancellare l’esempio di Francesco
d’Assisi per far passare i ricchi per la cruna d’ago e per la porta stretta
della salvezza, sono già degli errori, se poi consideriamo l’abolizione della
celebrazione eucaristica, che è la sintesi perfetta e il cuore della memoria
della vita di Cristo, allora è evidente la perdita della sostanza del
senso della nostra fede. Il senso è proprio nel dono del corpo di Cristo per
noi. In Inghilterra si dice: hanno gettato via il bambino con l’acqua sporca
del bagno.”
“Metafora efficace! – Apprezza l’Italiano, alzando
la voce per superare il fragore delle onde tagliate dalla prua – Nei
protestanti, è vero, si stenta a vedere quel modo di amare incondizionato,
dando concretamente la propria vita per il prossimo, come ha fatto il Maestro;
nei miei viaggi ho incontrato un’infinità di missionari cattolici e nessun
missionario protestante, e forse non è proprio un caso.”
Allora l’inviato di Oxford, con l’aria di chi
finalmente può affrontare l’argomento che gli sta più a cuore: “Oggi, però, il
problema più grave non è nelle divisioni confessionali, ma nello spirito del
secolo che sta influenzando il mondo!”
“Aiutami a capire – fa l’interlocutore con sincero
interesse – perché ho letto qualcosa sui danni della filosofia teologica di
questi anni, ma non so se ti riferisci a questo.”
“La fede presuppone la realtà dell’esistenza di Dio,
indipendentemente dall’essenza cui paragoniamo il divino per comprenderlo. Una
realtà. – Sottolinea fermandosi e poi riprendendo e scandendo le parole – Ma oggi
si assiste alla riduzione della realtà di Dio, per corruzione teologica, a
un semplice concetto. In altri termini, la dimensione di realtà della divinità
– presupposto della vera fede – è sostituita, invece di essere solo
rappresentata metonimicamente per poterne parlare, dalla dimensione simbolica”.
“Ho capito – rassicura l’Italiano e spiega –
riducendolo a concetto è più facile accostarlo o anche scambiarlo con una
qualsiasi istanza ideale o divinità pagana.”
“Anche questo, ma non solo. Si tratta di studiare l’Altissimo
in forme teologiche ma in sostanza atea: è propriamente la concezione atea che
si è insinuata nella mente dei teologi inconsapevoli e sta corrompendo il loro
pensiero.” Precisa l’Inglese.
“Ora non sono più certo di aver capito: tu dici che ridurre
l’Eterno a concetto senza la dimensione di realtà, ossia di esistenza
indipendente dall’uomo e dal suo logos, è già un ragionare da atei.
Vero?”
“Si, una parte del problema è questa.” Conferma l’Oxfordiano.
“C’è un’oggettività in questa difficoltà, secondo
me. Se io e te parliamo di un albero, di una persona o di una città non
presenti alla vista, concettualizziamo e comunichiamo in parole qualcosa che riferiamo
alla loro identità, perché l’albero, la persona e la città non sono
materialmente presenti, ma la loro materialità concreta costituisce il nostro
riferimento comune[9].
Se parliamo dell’Altissimo non possiamo fare riferimento alla comune esperienza
percettiva sensoriale della materialità di qualcosa, dunque il riferimento
implicito è necessariamente a un concetto.” Argomenta il Ligure.
“Per un ateo è così. Per noi no. Perché per un ateo
dietro quella parola c’è soltanto un concetto. Per noi credenti, l’esperienza
spirituale di realtà del divino nella nostra coscienza e i mille segni
del divino nei fratelli che incarnano l’Amore, costituiscono già un elemento del
reale che va al di là del semplice valore concettuale rappresentato dalle
parole.” Chiarisce l’Anglosassone, e poi aggiunge: “La vera fede è dimensione
vissuta del divino nell’umano, non è convinzione cognitiva o scelta ideologica”.
“Giustissimo!” Esclama l’interlocutore, ma poi
mormora fra sé: “Anche se questo riporta alla spinosa questione della Verità:
la Verità del logos che rende realtà di Dio la nostra interpretazione
dell’esperienza” e, subito dopo, concentrandosi per ricordare con precisione,
riferisce: “Ho letto qualcosa di un giovane francese diciannovenne: Pierre Jurieu, e sono certo che diventerà celebre[10]. Jurieu condanna la filosofia teologica dei nostri giorni e
gli innumerevoli compromessi tra concezione cristiana e pagana dell’uomo.
Scrive che non c’è via di mezzo praticabile tra il Dio di Sant’Agostino e il
dio di Epicuro. In altre parole: ogni compromesso sarà sempre un ‘mezzo
pensiero pagano’ e non potrà mai essere un ‘mezzo pensiero cristiano’, capisci?”
“Ah – fa l’Inglese – questo è certo: se non sei con Lui
integralmente, sei contro di Lui”.
“Da presbitero mancato che ha vissuto a Londra –
dice l’Italiano – sono curioso di sapere se tu vedi un problema per la fede
tipico dell’Inghilterra di oggi.”
“Forse per l’eredità delle guerre di religione e l’attualità
di grandi conflitti tra le fedi – risponde subito il viaggiatore di oltremanica
– in Inghilterra troppo spesso e per troppe persone la dottrina è un mezzo
di affermazione dell’identità e non è più fondamento della fede.”
A questo punto, la voce del capitano che chiama il
suo navigatore cerimoniere interrompe la conversazione, e i due si salutano
affettuosamente secondo il modo dei giovani cattolici di Londra.
48. Approdo in un mondo che
sorprende perché sulle prime non si vedono né paradiso né diavoli. Si
comprende come gli scienziati cattolici del Circolo di Oxford cercassero spunto
e supporto da colleghi della stessa fede religiosa e cultura classica, inviando
un loro membro in una realtà esistenziale profondamente diversa per geografia,
clima, radici etniche, tradizioni popolari e organizzazione sociale, ma rimasta
indipendente tanto dalla politica della corte papale quanto dalla deriva religiosa
spagnola, rifiutando l’Inquisizione; una città da loro in quegli anni definita A
Paradise Inhabited by Devils, quel “Paradiso dei
diavoli” sopravvissuto a eruzioni vulcaniche, guerre, carestie, sommosse,
epidemie, conquistato da tanti ma mai sottomesso a nessuno, che aveva ospitato
Juan de Valdés e tanti altri riformatori, protestanti ed eresiarchi senza mai
abbandonare la tradizione apostolica romana.
I rapporti tra l’Inghilterra e il Regno di Napoli
erano stati numerosi nel corso della storia, basti solo pensare che la regina d’Inghilterra
Mary Tudor, la Bloody Mary sorellastra maggiore di Elisabetta
I, era anche regina consorte di Napoli, che Orazio e Artemisia Gentileschi – quest’ultima
a lungo attiva a Napoli – avevano vissuto
e lavorato a Londra alla corte di Giacomo I, e che dal lungo elenco di
viaggiatori inglesi a Napoli, da William Thomas in poi, molti vi avevano
stabilito imprese navali e commerciali. Ma i rapporti tra le isole britanniche
e lo stato dei viceré spagnoli erano intensi soprattutto nel quadro più
generale dell’influenza della cultura italiana su quella d’oltremanica, che aveva
lontane radici.
L’Università
di Oxford era stata fondata sul modello fiorentino delle arti del trivio e del
quadrivio dal francescano Roberto Grossatesta (1175-1253),
e si legge che vi si privilegiavano le arti del quadrivio, dando molto rilievo
allo studio della natura, distinguendo tra la scienza, che ha valore
conoscitivo, e la sapienza, che è fonte divina della verità. Roberto Grossatesta, nato a Stradbrocke
ma di origine italiana[11],
aveva suggerito i modi per seguire nell’osservazione del mondo fisico e animale
Sant’Agostino più di Aristotele, il filosofo naturale per eccellenza, ed era noto
che a Napoli – dove San Tommaso d’Aquino aveva fondato la facoltà teologica
recuperando al pensiero cristiano le tesi aristoteliche, oltre alla filosofia
di Platone e da questi quella di Socrate – era stata attuata e vissuta una
sintesi perfetta tra teologia domenicana e spiritualità francescana, a tutto
beneficio della cultura cristiana a supporto del sapere accademico. Infatti a Napoli,
nel convento di San Domenico, Tommaso d’Aquino, santo anche della Chiesa Anglicana
e domenicano per eccellenza, aveva rifiutato la carica di Vescovo, per vivere e
lasciarsi morire in assoluta povertà come il più rigoroso dei seguaci di Francesco
d’Assisi.
Non c’è a Napoli l’epicureismo travestito da aristotelismo
diffuso tra i filosofi inglesi: non esiste un paganesimo di fatto nel ceto
colto, ma solo in una parte del popolo, quale quella di Palepoli
che abitava il Pallonetto[12] di
Santa Lucia e celebrava in clandestinità, nelle grotte del monte Echia o alle pendici di Pizzofalcone,
riti assimilati in epoca greca a quelli dionisiaci e caratterizzati dalla
ricerca del piacere orgiastico all’insegna di simboli fallici apotropaici, che
nei vicoli di Neapolis erano poi diventati corni e cornetti portafortuna.
Il nostro osservatore oxfordiano giunge dunque a
Napoli non con l’attesa di ottenere supporto politico da una potenza cattolica,
ma con la speranza di acquisire strumenti culturali per rinforzare la posizione
dei membri del suo Circolo quali studiosi cristiani di pura ispirazione
teologica, di alto livello scientifico e non dipendenti da Roma, come aveva dimostrato
di essere la Chiesa napoletana, sempre indipendente dall’esercizio politico del
potere temporale della Santa Sede.
L’ingresso della nave nel porto di Napoli, dopo aver
attraversato l’ultimo tratto di mare tra le sagome e i suggestivi riflessi nell’acqua
delle isole di Ischia e Capri, era davvero spettacolare: il mare giungeva all’odierna
Piazza Municipio, fino a riempire nell’alta marea i fossati che circondano il mastodontico
Castel Nuovo o Maschio Angioino; nell’avvicinarsi, la prua sembrava puntare verso
il castello, dietro il quale appariva agli occhi di chi giungeva dal mare la
maestosa scenografia della città antica costruita su terrazze affacciate sull’azzurra
distesa dalla quale era emersa la mitica e poi leggendaria ninfa Partenope,
come spiegava nelle sue conferenze Aldo Loris Rossi. Un’idea di come fosse ancora
nel Seicento il celebrato approdo nella città fondata dai Cumani nell’800 a.C.
si può avere dalla Tavola Strozzi, un dipinto regalato da Filippo Strozzi
al re di Napoli Ferrante d’Aragona, una raffigurazione panoramica con il corteo
di barche per l’ingresso trionfale della flotta aragonese dopo la vittoria sugli
Angioini[13].
Il legato oxfordiano, accolto da alti prelati docenti
all’Università fondata da Federico II, sperava di conoscere le meraviglie di
quella che all’epoca era universalmente reputata una città coltissima. Infatti,
a dispetto della fama recente di “Paradiso abitato da diavoli”, per oltre un
millennio l’amore per la conoscenza e la valorizzazione del sapere erano stati
tratti distintivi dei cittadini di Partenope, detta poi Neapolis, ed era noto
che fin dal tempo dell’Impero Romano i più colti filosofi e gli stessi
imperatori trascorrevano soggiorni di studio o prendevano dimora a Napoli, dove
si conservava il greco come prima lingua, esisteva un patrimonio di manoscritti
antichi e una tradizione di cultura classica con pochi uguali in Europa.
A testimonianza della conservazione per secoli di
questa tradizione, l’ultimo Imperatore Romano d’Occidente, Romolo Augustolo,
dopo essere stato sconfitto da Odoacre, si ritirò a Napoli nel Castel dell’Ovo,
allora detto Castrum Lucullanum, quella magnifica fortezza
sull’isolotto di Megara, allora circondato dall’acqua e oggi unito al
panoramico lungomare di Santa Lucia; il castello che nel 1647, nove anni prima
dell’arrivo dell’inviato del circolo oxfordiano, era stato una base operativa militare
degli Spagnoli. Romolo Augustolo rimase a Napoli fino alla morte[14] e fu
sepolto a Pizzofalcone, la collina che sorge dietro
alla Piazza del Plebiscito nel quartiere San Ferdinando, e che nel Seicento si
chiamava Monte di Dio in onore della chiesa con annesso convento del Monte di
Dio costruita nel Cinquecento[15].
Allo sbarco, il docente inglese fu accolto con grande
cordialità dai colleghi e fratelli di fede avvertiti per lettera. Dopo saluti, convenevoli
e frasi di circostanza in latino, i Napoletani porsero al nuovo arrivato un grande
mantello nero di seta sottile, pregandolo di avvolgersi dentro coprendo bene
ogni parte del corpo e, prima che potesse chiederne il motivo, con garbata decisione
lo condussero in gran fretta in un’elegante carrozza con finestrini chiusi da tende
di velluto, pregandolo di non guardare fuori fino a quando non fossero giunti a
destinazione.
Non provarono a imbastire una conversazione per
distrarlo, così la curiosità mista a preoccupazione dell’Inglese cresceva, mentre
udiva lo schioccare della frusta del conduttore a cassetta e sentiva risuonare sui
basoli gli zoccoli dei cavalli che scandivano un ritmo precipitoso sul sordo e
continuo rumore prodotto dal rapidissimo girare delle ruote. Lasciarono presto
il porto e il lungomare, attraversarono l’area abbandonata di un mercato e,
correndo lungo vie scorciatoie che un po’ attraversavano un po’ costeggiavano
la città, raggiunsero la piazza antistante il Palazzo dei Regi Studi[16], edificato
nel 1585 come caserma di cavalleria sull’area sepolcrale dell’antica Partenope,
detta “necropoli di Santa Teresa”. Di qui la corsa proseguì tutta in salita,
perché erano diretti al Vomero.
Giunti al panoramico Piazzale di San Martino, fu
detto all’ospite che se voleva poteva aprire le tende perché, con l’aiuto del Signore,
erano quasi arrivati al Castel Sant’Elmo, dove avrebbe trovato tutte le persone
con le quali desiderava parlare, scambiare opinioni, progettare collaborazioni
e dove, naturalmente, avrebbe potuto partecipare alle funzioni che si tenevano
nelle cappelle della fortificazione.
Era il 1656, l’anno della terribile pestilenza
immortalata da Micco Spadaro, e quasi tutti coloro che erano rimasti indenni e
non avevano congiunti tra gli ammalati si erano rifugiati sulla collina del Vomero,
dove la peste non era ancora arrivata. Alcune piazze della città erano state
trasformate in lazzaretti a cielo aperto, e lì si assisteva, allo stesso tempo,
all’opera di dedizione caritatevole di coloro che aiutavano gli ammalati, e agli
assalti di bande di disperati, sciacalli, poveri e contagiati, in gran parte
costituiti da lazzari, taglieggiatori e fuorilegge giunti dal contado, che
aggredivano da untori i nobili di passaggio, malmenandoli e derubandoli.
Il membro del Circolo di Oxford fu tenuto al riparo
da questi rischi ma, allo stesso tempo, l’isolamento imposto dall’emergenza
epidemica gli precluse ogni possibilità di rendersi conto della ricca e
articolata vita culturale che aveva luogo presso le vere e proprie corti degli
oltre cento palazzi nobiliari, così i docenti dell’ateneo napoletano provvidero
a fornirgli un quadro storico-culturale della città in epoca vicereale.
Al sud d’Italia la corte feudale, letteralmente definita
dall’insieme delle residenze da cui il signore medievale governava il territorio,
non si era evoluta in decine di città-stato o comuni, come era accaduto nella
parte centrosettentrionale del paese, ma aveva dato luogo a poche grandi città.
In particolare, la città fondata dai Cumani nell’800 a.C. era divenuta l’unica metropoli
del meridione[17],
per effetto di uno sviluppo culturale, economico, sociale e militare legato in
gran parte all’essere il porto più importante del mediterraneo. L’internazionalità
non era l’espressione di una vocazione esterofila o turistica, ma una realtà
che riguardava non solo le famiglie dei nobili, dovunque fra loro da sempre imparentati
fra stranieri, ma anche quelle di borghesi, marinai e abitanti di quartieri
dove stabilmente risiedevano per interessi artistici, militari, economici e
commerciali, intere famiglie provenienti dai principali stati dell’antico continente.
Alla fine del Cinquecento, Napoli aveva gli edifici
più alti d’Europa ed era seconda solo a Parigi per numero di abitanti; in quegli
anni, a seguito di un grande inurbamento, si studiò un modo per razionalizzare
una continuità tra la città greca e la città romana, separate dal quel grande
decumano noto come Spaccanapoli, e definire una reperibilità di tutte le residenze
cittadine: a Napoli fu concepita la moderna numerazione civica, poi esportata
in Spagna e da lì in tutto il mondo.
I docenti dell’Università fondata da Federico II, chiamata
“Studio” come l’omologa di Firenze e allocata come si è già detto nel palazzo
sede dell’attuale Museo Archeologico Nazionale, raccontarono all’inglese una
storia così come era stata riferita già nel 1648 dal Giraffi,
premettendo qualche notizia sulla vita dei quartieri bagnati dal mare.
I marinai e i pescatori che discendevano dalle fratrie
degli antichi abitanti di Partenope, da oltre duemila anni vivevano in perfetta
armonia con la natura, godendo delle bellezze pelagiche e del valore delle sue
risorse, e in particolare della pesca che, oltre a renderli autonomi in termini
alimentari ed economici, consentiva loro di trascorrere gran parte del giorno su
quel lungomare che dal porto, snodandosi per qualche chilometro, arriva fino
alle spiagge di Mergellina e Posillipo, passando per il Castel dell’Ovo e per il
tratto di mare che costeggia l’attuale Villa Comunale, celebrato nei secoli da
poeti e viaggiatori quale simbolo della città più bella del mondo. Anche se
alcune famiglie erano entrate nella cantieristica navale, diventando costruttrici
e proprietarie di imbarcazioni, la maggior parte degli abitanti era costituita
da pescatori.
Dalla costa, molti venditori di pesce erano risaliti
all’interno della città greca fino a un boschetto popolato da gazze ladre, al
fianco di una grande direttrice viaria del centro cittadino, prossima all’attuale
Via Toledo nei pressi di Piazza Carità. Alcune famiglie di pescatori avevano
aperto dei locali di cucina marinara e di ricercate prelibatezze in quel suggestivo
spazio verde, detto Pignasecca, dove una
storia popolare vuole che, seccandosi un albero di pino[18] usato
dalle gazze per nascondere gli oggetti rubati alle coppie che vi andavano ad amoreggiare,
fossero venuti alla luce, nella refurtiva, preziosi ed effetti personali di
alti prelati. Da tutta Europa andavano alla Pignasecca
per un dolce dalla ricetta segreta, detto Biancomangiare, e per assistere
alla corrida nella plaza de toros creata dagli Spagnoli un po’ più su, in uno spiazzo
dopo il boschetto.
A partire da Carlo V, i re di Spagna si erano
comportati come dei grandi potenti della terra rispettosi del popolo partenopeo,
soprattutto quello dei pescatori che, da millenari proprietari della costa,
avevano concesso loro il porto come base della flotta militare che da Napoli
dominava il Mediterraneo. Esisteva dunque un antico implicito convenuto di
rispetto reciproco tra gli abitanti dei quartieri di Palepoli,
esperti marinai e pescatori, e la monarchia spagnola. Per la prima volta quel patto
d’onore era stato rotto e il viceré aveva agito in spregio della popolazione
autoctona, comportandosi come i governatori conquistadores delle terre d’America
occupate, che trattavano i nativi in modo disumano.
Un pescatore non si rassegnava a dover cedere a quelle
imposte che stavano trasformando l’esistenza sua e della sua gente in una vita
da schiavi. Ne aveva parlato con un suo cognato, tale Maso Carrese, che viveva nel
pescoso borgo di Pozzuoli e raccoglieva il malcontento locale, ma i due non erano
riusciti a trovare soluzioni, visto che le quattro nuove gabelle, incluse quelle
sulla frutta e sul pane, erano state imposte malgrado la presenza di un loro
rappresentante, legalmente definito l’Eletto del popolo. I pescatori,
nutrendosi del pesce che pescavano, avevano bisogno solo di pane e frutta, che
potevano comprare coi proventi della vendita dal pescato, quando non c’era l’esosa
gabella. Infatti Bernardina, la moglie del nostro pescatore, vendeva il pesce pescato
dal marito ma, con le nuove gabelle, il ricavato della vendita bastava appena a
pagare le tasse, sicché lei si era procurata fuori Napoli un po’ di farina con
la quale aveva riempito una calza che aveva poi nascosto ritornando in città. Ma
al varco del dazio fu perquisita e, trovata la calza piena di farina, fu
arrestata e gettata in prigione.
Il pescatore voleva a tutti costi liberare la moglie,
ma non aveva i cento scudi necessari per pagare la cauzione, e allora, per avere
un aiuto nel cercare qualcuno disposto a concedergli un prestito, si rivolse a
un anziano e stimato sacerdote della chiesa del Carmine, che aveva dedicato la
vita all’aiuto dei poveri.
A questo punto, l’inviato del Circolo di Oxford interruppe
il racconto per sapere del sacerdote e, in particolare, quale fosse il suo atteggiamento
in politica; dopo tutto, l’Inglese era venuto a Napoli da cattolico per conoscere
pensiero, atti e strategie di intellettuali fratelli di fede ma non legati politicamente
alla corte papale.
Ecco, pressappoco, cosa gli fu detto.
Don Giulio Genoino, un prelato dottore in giurisprudenza
con la passione per la storia di Napoli, noto in città per le sue prediche sull’eguaglianza
di tutti gli uomini dinanzi al Signore e per il costante soccorso materiale e
spirituale che prestava agli indigenti, aveva da sempre in progetto di cambiare
le leggi per migliorare le condizioni di vita del popolo. Aveva più di ottanta
anni e la sua vita era stata avventurosa e difficile: da giovane, d’accordo col
viceré del tempo, il Duca di Osuna, aveva provato a
modificare l’ordinamento del Regno di Napoli, ma i nobili ottennero che il
viceré fosse deposto[19] e contro
di lui fosse spiccato un mandato di cattura; Genoino fuggì a Marsiglia, ma nel
corso del viaggio contrasse la malaria; guarito, riprese la sua fuga perché condannato
in contumacia all’ergastolo. Raggiunto da emissari del re di Spagna, fu arrestato
e tradotto in carcere a Madrid. Deportato e costretto a subire varie forme di
pena, sempre in condizioni di restrizione della libertà, dopo tredici anni fu graziato
e poté tornare a Napoli.
Il membro del Circolo di Oxford osservò che, anche a
Napoli, la vita di un paladino della giustizia cristiana era estremamente
difficile e precaria. E allora si interessò al prosieguo della storia, dicendo
che supponeva un intervento del sacerdote nella vicenda umana del pescatore. E poi
motivò il suo interesse, spiegando che i prelati anglicani non avevano più la
capacità di parlare a pescatori e marinai, così che a Londra li avevano persi
tutti alla causa della fede.
Il professore napoletano, che stava narrando in un latino
aureo reso più efficace da termini inglesi, spagnoli, francesi e italiani di
uso internazionale che l’interlocutore sicuramente conosceva e impiegava, riprese
dicendo di come Genoino non si fosse limitato ad aiutare il derelitto a far uscire
di prigione la moglie, ma lo avesse catechizzato in questioni dello spirito e
fatti della vita.
Allora l’inglese sottolineò che questo voleva dire
un riconoscimento dell’autorità spirituale di chi ti presta aiuto materiale, e l’interlocutore
partenopeo assentì ma aggiunse che una persona colta ed esperta del mondo quale
era il parroco dell’antica chiesa dove si venerava dal Medioevo l’icona della
Madonna Bruna condotta a Napoli dalla Palestina, poteva essere per il popolano
come un padre per un fanciullo. Il docente proseguì narrando che il pescatore
voleva capire come e perché era stato possibile introdurre quei tributi così
alti che nessuno del popolo poteva pagare. L’anziano prelato spiegò al
pescatore che serviva un grande flusso di denaro per pagare i debiti di guerra
del re di Spagna e che l’Eletto del popolo Andrea Naclerio li aveva traditi,
lasciandosi corrompere e votando a favore delle quattro gabelle.
L’Inglese osservò che don Giulio Genoino aveva rivelato
la realtà politica al popolano, indicando un responsabile prossimo nel Naclerio
e un nemico del popolo nel viceré. Il professore apprezzò l’acuta sintesi dell’oxfordiano
e proseguì nel racconto, riferendo con discorso diretto, all’uso napoletano, l’accorata
domanda del pescatore:
“Come si spezzano queste catene?” E la risposta
semplice e significativa:
“Si deve creare unità di intenti in tutto il popolo
che deve volere e chiedere la stessa cosa.” E, ancora, l’interrogare del
pescatore:
“A che serve?” E il prete giurista di rimando:
“A far cambiare le leggi: è l’unico modo per uscire
da questa condizione di oppressione.” Al che, lo sfiduciato e rassegnato
interlocutore, col tono della domanda retorica:
“Come si possono cambiare le leggi?”
Genoino, sottolinea il docente partenopeo, aspettava
maieuticamente proprio questo interrogativo, al quale risponde con sicurezza:
“Esistono solo due modi: o si riesce a persuadere i
legislatori che dal cambiamento delle leggi possano trarre un vantaggio, oppure…
“Oppure?” Incalza il pescatore
“Oppure – continua il prete con un sorriso che
racchiude il desiderio di una vita intera – si prende il posto dei legislatori
e si cambiano le leggi, secondo giustizia e bisogno del popolo!”
Il legato del circolo di Oxford era affascinato e
volle sapere se il pescatore avesse provato a dare seguito alla seconda
possibilità. Ma, prima ancora che il docente napoletano potesse rispondere,
chiese anche se il clero a Napoli stesse dalla parte dei nobili o da quella del
popolo. Il professore rispose subito e sinteticamente alla seconda domanda,
dicendo che in genere il clero faceva parte a sé, agendo da mediatore, poi
riprese immediatamente il suo racconto.
Accadde che il viceré, duca d’Arcos, dall’altisonante
nome di Rodrigo Ponce de Leon, che riportava alla mente quello di Juan Ponce de
Leon scopritore della Florida, si recasse a pregare proprio alla chiesa del
Carmine. Giulio Genoino avvertì il pescatore, che raccolse tutto il popolo di quei
quartieri nell’adiacente Piazza Mercato[20]. La
folla, e prime fra tutte le donne, appena videro uscire il viceré dal tempio,
gli corsero incontro, gettandosi in ginocchio ai suoi piedi per implorare con
pianti e suppliche che togliesse almeno la gabella sulla frutta, perché era l’unico
alimento rimasto a chi non aveva pescatori in famiglia e non poteva comprare il
pane. Rodrigo Ponce de Leon, forse perché intimorito dalla moltitudine di
popolani che gli si accalcava intorno, promise che avrebbe abrogato la gabella
sulla frutta, suscitando il giubilo della gente, che rincasò certa che l’incubo
fosse finito.
Passarono giorni e poi settimane, durante le quali il
viceré era letteralmente scomparso alla vista, asserragliato nel suo palazzo e neanche
minimamente intenzionato a presentarsi al Consiglio degli Eletti per rivedere
le disposizioni in materia di dazi e gabelle.
Il pescatore tornò da Giulio Genoino a chiedergli cosa
fare, e il sacerdote gli disse di aspettare e pregare, ma nel frattempo, con l’aiuto
del cognato, organizzare tutti i pescatori e il popolo dei quartieri prossimi
al Mercato, parlare loro così da ottenere unità di intenti e coesione nell’agire.
Così, dall’inizio della vicenda, erano passati circa
sei mesi. Il pescatore e sua moglie Bernardina andarono a comprare la frutta,
sperando di avere notizia dell’abrogazione della gabella, e invece trovarono un
“banco del nuovo dazio”[21]: i
popolani che erano con loro, per fame, disperazione e rabbia, diedero fuoco al
banco.
Il pescatore aveva compreso che il viceré li aveva
ingannati e così nella sagrestia della chiesa, che era un vero refugium peccatorum,
chiese all’anziano prelato lumi su cosa fare. Genoino aveva un piano e spiegò
che l’occasione propizia per la sua attuazione era data dall’avvicinarsi della
festa del Carmine, quando tutti compravano frutta per mense e banchetti. I
dettagli li comunicò in camera caritatis solo
al pescatore e a suo cognato.
Ecco, in breve, il piano: dopo essersi accordati con
venditori e acquirenti per non pagare la gabella sulla frutta ed essersi
radunati nell’area del Mercato presso il punto di raccolta ortofrutticola, il
cognato del pescatore, Maso Carrese, aveva il compito di attrarre l’attenzione
delle autorità e delle forze dell’ordine, arringando il popolo e poi, appena
certo di averli distratti, doveva dare un segnale al pescatore, chiamandolo a
gran voce, per farlo entrare in azione. Intanto, il pescatore per sfuggire ai
controlli doveva aggirarsi nei paraggi fingendosi matto e, come accadeva all’epoca,
doveva essere seguito da una banda di ragazzi che si prendeva gioco di lui. I giovanissimi
figli del popolo erano essenziali perché godevano di parziale impunità.
Allora l’Inglese, sempre più avvinto dalla trama,
chiese come fosse organizzato il controllo di polizia della città, e si sentì
rispondere che anche questo a Napoli era complesso: vi erano dei gendarmi
spagnoli che svolgevano il compito ordinario, una soldataglia incaricata del “lavoro
sporco”, che il popolo chiamava “sgherri”, e per i compiti più delicati la
guardia tedesca, un temuto corpo teutonico di antica tradizione.
Ecco cosa accadde la domenica 7 luglio. Mentre i ragazzi
popolani reclutati e provvisti ciascuno di due bisacce, una delle quali era vuota,
accorrevano e si preparavano presso il muro esterno della tribuna di Sant’Eligio,
i venditori arrivati dal contado impilavano le loro ceste colme di frutta al
margine della piazza perché i gabellieri non li facevano entrare senza aver
pagato la gabella e, intanto che molti di loro fingevano di parlare con i
compratori accorsi in gran numero nonostante fosse domenica, alcuni
assicurarono con una fune tutta la pila delle ceste. Venditori e compratori
facevano pressione per entrare nella piazza senza pagare, ma gli sgherri e i
gabellieri sbarrarono loro il passo, allora Maso Carrese salì su un piedistallo
e cominciò a perorare la causa del popolo.
A questo punto i gabellieri avvertirono le autorità
e “fu chiamato l’Eletto del popolo, Andrea Naclerio. Questi invitò tutti alla
calma e a compiere il proprio dovere di cittadini pagando quant’era dovuto”[22]. Allora,
Maso Carrese sfidò Naclerio e, con voce potente, gli urlò: “Di chi fai gli
interessi tu che sei stato eletto da noi?!” Non sentendo risposta, ma avveduto
del fatto che i gendarmi e tutte le autorità, compreso il capitano di
giustizia, erano rivolti a lui e attenti alle sue parole, diede il segnale,
chiamando a gran voce per nome il cognato pescatore: “Masaniello!”[23]
Al segnale, un sodale tagliò la fune delle ceste,
così che rotolarono giù centinaia di chili di frutta che invasero la piazza, bloccando
gabellieri e gendarmi e consentendo al finto matto Masaniello di irrompere con
la banda di ragazzi che, riempiendo di frutti la bisaccia vuota, urlavano in
coro: “Niente gabelle, viva ’o re ’e Spagna, mora ’o malgoverno!”[24]
Il grido rivendicava la legittimità della rivolta del
popolo, che si appellava al re di Spagna che lo aveva sempre rispettato e
insorgeva contro la tirannide fiscale del viceré. E questo spiegò il professore
al collega inglese del Circolo di Oxford.
Noi, seguendo il filo delle vere vicende storiche
ricostruite da Vittorio Gleijeses e tralasciando le costruzioni di fantasia, le
numerose versioni romanzate e i falsi storici, prodotti dalla storiografia
politica che ha inquadrato la vicenda nella guerra dei trent’anni o l’ha
proposta come un prodromo della rivoluzione repubblicana avvenuta dopo la morte
di Masaniello, riprendiamo la traccia del racconto che il docente napoletano
basava sulla propria diretta testimonianza e sul resoconto a stampa che ne
aveva dato il Giraffi l’anno successivo agli accadimenti[25].
Riempite le bisacce vuote con la frutta, i
giovanissimi volontari posero mano all’altra bisaccia, cavandone pietre per una
sassaiola che avviò la guerriglia urbana: Naclerio fu colpito violentemente in
pieno petto e cadde; le fitte raffiche di sassi si abbatterono con una tale veemenza
su forze dell’ordine e rappresentanti politici, da metterli in fuga, lasciando
agli adulti modo e tempo di dare fuoco a tutti i casotti di dazio. Intanto
Naclerio, unico rimasto, si rialzò e, “benché malconcio, cercava inutilmente di
frenare i rivoltosi. Ormai nessuno lo ascoltava, anzi, quando lo riconobbero fu
costretto a buttarsi da una finestra per salvarsi”[26].
Masaniello si pose alla testa degli insorti comandando
loro, come se fossero un esercito addestrato, di seguirlo per andare a prendere
il palazzo reale. Nella sua mente c’erano – spiegava il professore napoletano
all’ospite oxfordiano – le parole di don Giulio Genoino: “… si prende il posto
dei legislatori e si cambiano le leggi, secondo giustizia e bisogno del popolo”.
Poi proseguì nel racconto dei fatti, così ricostruito da Gleijeses: “Dopo aver
disarmato i soldati spagnoli e la guardia tedesca, la banda di Masaniello, cui
si era accodata una moltitudine indescrivibile, invase il palazzo giungendo
sino alle camere della viceregina[27]. Una
delegazione popolare, intanto, si era recata al palazzo del Principe di Bisignano,
Tiberio Carafa, un nobile che varie volte aveva difeso gli interessi del popolo,
per offrirgli la carica di generalissimo. Benché fosse ammalato, il principe,
comprendendo la gravità della situazione, volle recarsi al palazzo per fare da
mediatore fra i rivoltosi e il viceré, allo scopo di evitare un aggravamento
della rivolta, e il duca d’Arcos, spaventato, cedette senza farsi troppo pregare,
concedendo l’abolizione della gabella; subito dopo, però, si rifugiò nel
convento di San Luigi. Il principe di Bisignano invitò i rivoltosi a ritornare
alle proprie case e il popolo si ritirò, ma per riunirsi nuovamente nella
chiesa del Carmine”[28].
Il popolo che seguiva Masaniello non era affatto una
folla anonima di straccioni[29], come
vuole buona parte della storiografia ottocentesca, ma un’eterogenea realtà di
tartassati che includeva non pochi stranieri dissenzienti dal governo vicereale,
i capitani delle ottine[30] e
molte “teste pensanti”, fra le quali c’era Giuseppe D’Alesi, che aveva
partecipato nel maggio di quell’anno ai moti popolari di Palermo contro il
viceré spagnolo di Sicilia: arrestato, torturato e violentato, fuggì a Napoli
dove si unì a Masaniello[31].
Nella chiesa del Carmine si tenne l’assemblea del
popolo in rivolta. Masaniello, forse anche per la presenza di don Giulio
Genoino, ritenne opportuno fare ancora un tentativo per far cambiare le leggi
persuadendo i potenti di poterne trarre un vantaggio, che in questo caso sarebbe
consistito nella conservazione del potere, evitando altre rivolte. Il parere
favorevole di tutti i capi degli insorti favorì il raggiungimento dell’unanimità.
Si decise allora di designare il principe di Bisignano e il principe di Satriano
– altro nobile sensibile alle loro ragioni – quali rappresentanti del popolo presso
il viceré e incaricati di chiedere anche l’abolizione della gabella sulla
farina e di altri balzelli minori.
L’Inglese, udite queste cose, disse: “Ecco, allora
si è avuta un’alleanza fra nobili e popolo!”
E il Napoletano: “Un momento, devo proseguire…”
E il docente Inglese: “In Inghilterra esiste una
distinzione di status sancita per legge che distingue fra Lord, borghesi privi
di titoli e popolo”.
L’accademico partenopeo, in risposta: “A Napoli si
riconoscono sette gradi di nobiltà, per onore regale e gerarchia sociale, che
vanno dal massimo livello dei principi a quello minimo dei signori, ma le altre
condizioni non sono definite per legge”.
L’Inglese, sinceramente incuriosito: “Interessante…
E allora, come si sono comportati i principi?”
E qui il professore riprende il racconto, e noi con
lui, seguendo il filo dei documenti che riportano frammenti di una realtà che
lui, da testimone del tempo, conosceva per intero.
I principi di Bisignano e Satriano valutarono
attentamente la designazione e le aspettative nutrite dal popolo nei loro
confronti: non si trattava di svolgere un ruolo di mediazione rimanendo terzi,
ma di porsi a capo della rivolta e chiedere in forma ricattatoria l’abolizione
di altre imposte, minacciando una guerra civile per la cacciata del viceré e la
presa del potere. I due nobili, pur essendo avversi alla politica fiscale del
viceré e solidali con la sofferenza del popolo, non si sarebbero mai spinti fino
al punto di capeggiare un’insurrezione, infrangendo il patto di lealtà verso il
re di Spagna. Inoltre, sapevano che il fine delle ingiuste tasse del duca d’Arcos,
alias Rodrigo Ponce de Leon, era il pagamento dei debiti di guerra del re, che dunque
sarebbe stato dalla parte del suo viceré, con ogni probabilità condannandoli a
morte come traditori. I due principi ringraziarono per il tributo di stima, ma
declinarono l’incarico.
Solo dopo questa rinuncia, Tommaso Aniello d’Amalfi,
il fratello Giovanni, la moglie Bernardina, i capitani delle ottine e tutti gli altri capi dell’insurrezione decisero di
costituire una Consulta Popolare con ampi poteri discrezionali e di incaricare Giulio
Genoino di redigere il programma politico del popolo di Napoli.
A questo punto del racconto, il professore
napoletano, dopo aver registrato l’espressione di sorpresa del suo interlocutore,
sofferma l’attenzione con tono compiaciuto sul ruolo dell’anziano sacerdote e
uomo di legge Genoino, con parole che noi riprendiamo ancora da Gleijeses: “Il
vecchio giurista, che aveva atteso da anni questo momento, si illuse di poter
riuscire ad averla vinta contro il re di Spagna e i nobili napoletani. Fu lui a
compilare il programma politico, che chiedeva per il popolo una rappresentanza
uguale a quella dei nobili nell’amministrazione della città: anche la
ripartizione del debito cittadino avrebbe dovuto cadere per metà a carico dei
nobili e per metà a carico del popolo, con l’abolizione di tutte le gabelle più
esose e specialmente di quelle che davano la possibilità di speculare alla
nobiltà. Fu poi richiesta la convalida di un privilegio concesso da Carlo V
imperatore alla città di Napoli che le garantiva l’esenzione da qualsiasi
gabella a meno che non si trattasse di tributi del tutto eccezionali, previo il
consenso del Pontefice: il Genoino sapeva dell’esistenza di questa pergamena
per averla letta”[32].
E l’inviato del Circolo di Oxford: “Il «privilegio»
di Carlo V mi incuriosisce molto! Sembra essere una prova materiale e legale di
quel rispetto di cui dicevi prima…”
“Esattamente. Ma proprio per l’importanza e il
valore riconosciuto urbi et orbi, questo documento sarà al centro di un “caso”
nella vicenda, perché inizialmente risulta introvabile”. L’accademico
napoletano ricostruisce passo dopo passo quanto accaduto, e noi seguiamo la sua
narrazione.
Il viceré Rodrigo Ponce de Leon invia a Masaniello delle
carte vergate con parole dai contenuti diversi dalla concessione di un
privilegio ai Partenopei; il pescatore le fa esaminare al Genoino che, senza dubbio
alcuno, le ritiene false. Il sacerdote giurista spiega che il duca d’Arcos,
approfittando dell’ignoranza del popolo, ha cercato di ingannarli ma, visto che
ha lui il coltello dalla parte del manico in questa questione, conviene stare
al gioco e fingere di credere che lui abbia sbagliato in buona fede, mandandogli
un messo incaricato di specificare che si tratta di una pergamena del Cinquecento,
precisando i caratteri dei documenti di quel tempo.
Così fanno, e questa volta il viceré invia delle
vecchie carte del secolo prima. Allora, Giulio Genoino verga di sua mano un
messaggio per Ponce de Leon, così che non possa più fare il finto tonto: “Per
Privilegio di Carlo V si intende la pergamena originale di Ferdinando il
Cattolico vergata con un atto ratificato dall’Imperatore quando ottenne dal
Papa Clemente VII l’investitura di Napoli”.
La risposta si fa attendere. Intanto, la Consulta
Popolare stila un elenco dei traditori del popolo, ossia di coloro che avevano
tratto profitto personale con la frode dall’aumento delle gabelle, e in cima
alla lista appare il nome di Girolamo Letizia, colui che aveva gettato in
carcere Bernardina Pisa per la calza di farina che aveva tentato di nascondere
al dazio.
Arriva alla chiesa del Carmine il messo del viceré
con la lapidaria notizia che il Privilegio non si trova. Masaniello e Genoino
ingiungono di cercare meglio, non solo negli archivi di palazzo, ma dovunque
possa essere e, per mettere pressione, mandano i volontari del popolo a far
visita ai traditori per punirli. Vanno a casa di Andrea Naclerio, l’Eletto del
popolo che aveva approvato le gabelle ottenendone una percentuale, ma questi,
che aveva assistito al nascere della sommossa e ne aveva assaggiato la violenza
rimanendo colpito da una pietra, aveva pensato bene di rifugiarsi nei suoi
possedimenti di campagna; allora la milizia dei popolani saccheggia la sua casa,
e poi fa lo stesso per gli altri traditori del popolo che si sono resi
irreperibili: panettieri, consiglieri e magistrati[33].
In via non ufficiale si fa giungere voce al palazzo
che se Masaniello non vede arrivare il Privilegio lo va a cercare lui, con
tutto il popolo che ha saccheggiato le case dei traditori. Sempre in via non
ufficiale, giunge la risposta che il documento non c’è, può essere stato smarrito
già molti anni prima o, forse, non è mai esistito. Allora, ufficialmente, i
rivoltosi fanno sapere che Giulio Genoino, collaborando col precedente viceré, conosceva
bene il documento, lo aveva avuto tra le mani e sapeva come e dove veniva gelosamente
custodito prima della nomina del duca d’Arcos Ponce de Leon.
In tal modo il viceré è messo alle strette: il documento
esiste, lo conosciamo e se non si trova sei tu responsabile dello smarrimento.
Allora il duca d’Arcos, continuando a sostenere che la
pergamena di Carlo V non c’è, si dichiara pronto a vergare un documento di suo
pugno, garantendo l’abolizione delle gabelle e la promessa di non ripristinarle[34].
Masaniello non si fida, Genoino gli dice che fa bene e va oltre, spiegandogli il
valore politico della manovra del viceré: il Privilegio è un atto di un’autorità
superiore allo stesso re di Spagna e ancora riconosciuta in tutta Europa,
contiene una decisione presa nel contesto di un’investitura papale con valore legale
in tutti gli stati cattolici, e per questa ragione si può considerare intoccabile;
lasciare che d’Arcos compili un atto di suo pugno vuol dire riportare il potere
legislativo nelle sue mani, legittimarlo nuovamente a governare Napoli dopo
averlo delegittimato con l’insurrezione, e infine consentirgli, dopo aver
sedato la rivolta, di dichiarare nullo l’atto in quanto estorto con la forza.
Intanto, delle spie di Masaniello reclutate fra i giovani
nobili, fanno sapere che il viceré è asserragliato nel convento della chiesa
monumentale di San Luigi Gonzaga in Posillipo[35], un
complesso architettonico collocato in cima a una lunga gradinata rupestre, che era
stato edificato in memoria del soggiorno a Napoli del santo, avvenuto per
motivi di salute nel 1558. L’ipotesi del Genoino è che abbia con sé la preziosa
pergamena, in previsione di un assalto al palazzo da parte degli insorti.
Il popolo decide di andare in armi a scovare il
viceré, ma viene fermato dall’arrivo a cavallo del duca di Maddaloni Diomede V
Carafa, un personaggio singolare dai toni imperiosi, dal carattere dispotico e
dagli atteggiamenti sprezzanti, soprannominato dal popolo “Mustaccio” per i
lunghi baffi che soleva lisciare con movimenti altezzosi del capo ed
espressioni sprezzanti del viso[36]. L’anno
prima, insieme con il fratello Giuseppe, aveva preso a calci il Cardinale
Ascanio Filomarino, amico del popolo, per non aver
voluto ascoltare la lettura di uno scritto di un gruppo di nobili cavalieri
napoletani. L’aggressione era apparsa ancora più grave e inammissibile agli
occhi del popolo e degli altri nobili perché Filomarino
da qualche anno era anche Arcivescovo metropolita di Napoli[37].
Diomede Carafa, fingendo di agire in proprio ma in
realtà inviato dal viceré, intima al popolo di placarsi agitando una pergamena
ed esclamando di aver trovato il Privilegio di Carlo V.
Il popolo si placa e Masaniello si fa consegnare il
prezioso documento, affidando il duca alla sua guardia, poi di corsa entra in
chiesa, va in sagrestia e, mettendo a tacere dei membri della Consulta, pone
tra le mani di don Giulio Genoino la pergamena. Molti sono già pronti a festeggiare
e perfino quelli che considerano Diomede Carafa il più odioso tra i nobili
sembrano rivalutarlo per quel gesto, ma l’euforia dura poco. L’anziano
sacerdote giurista esce dalla chiesa e, mostrando la pergamena alla folla e
allo stesso duca di Maddaloni, sentenzia: “È falsa!”
Immediatamente i popolani afferrano Mustaccio e lo
picchiano a sangue ma poi, presi da compassione, lo lasciano fuggire.
Costituito un vero e proprio esercito popolare[38], si
procede alla spedizione, ma poiché molti non si fidano più della notizia fatta
giungere a Masaniello dai nobili, si decide di andare al palazzo reale; costatata
l’assenza del viceré, il popolo armato per lo più di archibugi e carabine,
oltre che di bastoni e armi bianche, percorre vociando lungo il mare tutta la via
fino a Posillipo e qui, di corsa, sale lungo la gradinata rupestre fino al
convento di San Luigi.
È serrato e impenetrabile come una fortezza: lo circondano;
qualcuno sostiene di aver visto dietro le imposte di un balcone il viceré, ma
non c’è modo di entrare. Allora decidono di dare di piccone per scardinare il portale
sprangato. Mentre sono all’opera, arriva la carrozza del Cardinale Ascanio Filomarino[39], che si
offre quale mediatore e propone un’alternativa allo scardinamento: a lui i monaci
avrebbero aperto e Ponce de Leon lo avrebbe ricevuto. E così accade.
I rivoltosi attendono pazienti ma non per molto,
perché ben presto Filomarino esce dal convento con
una grande raccolta di fogli, carte e pergamene, e annuncia di avere tutti i
documenti del viceré e, prima che Masaniello potesse proferir parola, chiama a
raccolta i presenti ad alta voce: “Seguitemi, si va a portare tutto a don
Genoino alla chiesa del Carmine!” E monta sulla sua carrozza. In tal modo,
ottiene che l’esercito popolare lasci il sito per tornare alla Piazza del
Mercato, consentendo al viceré di abbandonare di nascosto in lettiga il
convento, e ottiene che l’esame dei documenti avvenga in un secondo momento, presso
il presule giurista, senza rapide occhiate e giudizi sommari e, soprattutto,
quando lui si sarà già allontanato.
Intanto, la fuga di Ponce de Leon in lettiga, che
già di per sé appare grottesca, assume toni esilaranti quando il corpulento statista
spagnolo ordina ai due gracili valletti che lo sostenevano di portarlo
immediatamente al Vomero, al Castel Sant’Elmo, e i due portatori, già zuppi di
sudore al sole di luglio per la discesa da Posillipo, dichiarano di non avere
la forza nemmeno di pensare a una salita della collina col suo peso sulla
portantina, e dunque il viceré si accontenta di essere condotto in Castel Nuovo[40].
Il ritorno dei rivoltosi in Santa Caterina in Foro
Magno, o chiesa del Mercato, è festoso se non gioioso: Filomarino
consegna a Genoino il grosso pacco di documenti, l’anziano sacerdote ringrazia l’Arcivescovo,
che deve ritornare al duomo per un battesimo in Santa Restituta[41], e
procede all’esame di fogli e pergamene.
Genoino sfoglia tutto rapidamente per vedere se c’è il
Privilegio: non lo trova. Legge nel dettaglio ogni scritto, ma non trova nulla
di rilevante per la loro causa. A questa ennesima delusione, che insinua in
molti il sospetto che davvero la pergamena di Carlo V sia andata perduta,
Masaniello reagisce attuando un piano di organizzazione militare dei rivoltosi
per la presa della città. Comincia dall’assalto alle navi armate che erano nel
porto, dalle quali i suoi uomini rubano alabarde in gran copia, che gli consentono
di trasformare decine e decine di giovani e lazzari in guardie armate a presidio
delle aree già da loro controllate, ma soprattutto si impossessano dei cannoni,
che con sistemi di funi portano a terra, in difesa di barricate e posti di
blocco.
Il ragionamento di Masaniello è semplice: la nostra
legge è il Privilegio di Carlo V, se questo non c’è, non c’è più legge per noi;
noi riconoscevamo un principio sancito da un imperatore investito dal Papa e
obbediamo al re che riconosce queste autorità morali, non riconosciamo alcuna
legittimità alla corte vicereale e ai suoi clienti politici. Senza quella
legge, vi cacciamo a colpi di cannone e stabiliamo noi le regole del patto sociale.
“Avvincente! – Esclama a questo punto della
narrazione l’inviato del Circolo di Oxford – Ma poi, dimmi, la pergamena di
Carlo V è stata trovata?”
“Ascolta – sorride il docente napoletano – devi
pazientare ancora un po’!”
“Sono tutto orecchie!” Risponde l’Inglese.
“Filomarino è ancora l’Arcivescovo
di Napoli. Desidero che tu lo conosca, ma prima che te lo presenti è necessario
che tu sappia qualcosa del suo ruolo in questa vicenda, che è stata l’accadimento
principale nella nostra città nel secolo presente. È una persona speciale: ha
cominciato da cameriere segreto[42] di
Papa Urbano VIII al tempo dei processi a Galileo Galilei e, quale capo della
Chiesa di Napoli, dall’inizio della rivolta ha scritto ogni giorno una lettera
a Papa Innocenzo X. Abbiamo copia di queste lettere: ti leggo un brano da una
che è stata scritta proprio nel punto in cui sono giunto col mio racconto, così
tu vedi quanto lui ammirasse quel pescatore”. E, così detto, prende a leggere la
lettera:
“Questo Masaniello è pervenuto a segno di tale
autorità, di comando, di rispetto e di obbedienza, in questi pochi giorni, che
ha fatto tremare tutta la città con li suoi ordini, li quali sono stati eseguiti
da’ suoi seguaci con ogni puntualità e rigore: ha dimostrato prudenza, giudizio
e moderazione; insomma era diventato un re in questa città, e il più glorioso e
trionfante che abbia avuto il mondo. Chi non l’ha veduto, non può figurarselo nell’idea;
e chi l’ha veduto non può essere sufficiente a rappresentarlo perfettamente ad
altri”[43].
“Nemmeno la Regina Elisabetta ha mai avuto un
tributo così assoluto da un suddito!” Commenta stupito il membro del Circolo di
Oxford, e poi chiede dell’aspetto di Tommaso Aniello, al che, il professore
napoletano legge al collega inglese un ritratto di chi lo conosceva:
«Era un giovine di ventisette anni, d’aspetto
bello e grazioso, il viso l’aveva bruno ed alquanto arso dal sole: l’occhio
nero, i capelli biondi, i quali disposti in vago zazzerino gli scendevano giù
per lo collo. Vestiva alla marinaresca; ma di una foggia sua propria, la quale,
alla mezzana ma svelta sua persona molto di gaio e di pellegrino aggiungeva»[44].
“Cosa aveva del Greco?” Chiede l’Inglese. E subito
la risposta:
“Masaniello, lui, di greco forse nulla, era
influenzato dai viaggiatori stranieri che sbarcavano dove lui pescava e
prendevano casa dove la sua famiglia vendeva il pesce”.
“Ma così è anche la sua gente?”
“No, quella gente è strana. Nella sua ottina, dove è nato, si tramandavano antiche superstizioni
e pratiche esoteriche legate a una divinità persiana adottata da Greci e Romani,
il dio Mitra, al quale nel primo secolo dopo la venuta di Nostro Signore
avevano eretto un edificio di culto con annesse terme, poi trasformato in una
piccola chiesa nel Medioevo e ora nella chiesa di Santa Maria del Carmine ai
Mannesi, così detta per i tanti costruttori e riparatori di carri nell’area”.
“Ma sono cristiani cattolici come noi?”
“Si, certo. Ma, come in altre ottine
greche, si tramandano credenze, riti magici, amuleti, pratiche divinatorie, atti
simbolici per ottenere influenze a distanza; per noi sono naturalmente cose in
realtà diaboliche, come i malefici. Credo che la consapevolezza di diversità nutra
la loro indipendenza”.
Allora l’Inglese: “Ma, in quell’area, tutti hanno superstizioni
legate a Mitra?”
Il Napoletano: “No, nel modo più assoluto. Il
sostrato è diverso. A poca distanza, di fronte al mare, dove scende il monte Echia, in segreto nelle grotte facevano riti misterici molto
diversi, dedicati a Dioniso, poi Bacco in epoca romana, ma per il popolo minuto
solo una sorta di spirito amico, in quanto complice nelle debolezze.
Personalmente ritengo che molti degli adepti non credano affatto nell’esistenza
di questo spirito, ma siano solo interessati ai riti, che costituiscono una
sorta di legittimazione del piacere e un mezzo per assopire la coscienza morale
e fuggire temporaneamente dalle responsabilità attraverso ubriachezze e condivisione
del peccato.
Le radici pagane sono diverse, ma il popolo non ne
sa nulla, segue senza capire per tradizione di famiglia e di fratria
originaria. Si tramandano pratiche apotropaiche quasi come un gioco e parte del
mito familiare. Alcuni credono veramente di poter influenzare gli eventi della
vita con oggetti magici, ma solo i più ignoranti e creduloni”.
“E questo incide sul loro comportamento religioso, o
fanno una ‘doppia vita’ spirituale?”
“Non è facile dirlo. Ma sono certo che, nel loro
modo di pensare, quel sapere e quelle pratiche antiche non hanno nulla a che
vedere con la religione; dunque, non parlerei di doppia vita spirituale,
nemmeno in quelli che fanno gli indovini o i maghi di quartiere. Fanno un po’ le
cose a modo loro, forse mancando nel popolo analfabeta, che non può leggere né alcuna
delle migliaia di pergamene greche custodite nei palazzi dei nobili, né l’Evangelo
impresso a stampa che è in tutte le nostre case, quella profondità di comprensione
spirituale che consente il discernimento nello spirito predicato da Nostro
Signore”.
“Dunque, loro si battezzano, rispettano le quattro
tempora, assistono alla sacra celebrazione eucaristica, digiunano secondo i
comandamenti della Chiesa, pregano in tutte le ore e nei giorni delle
ricorrenze comandati?”
“Si, in generale, in massima parte. Ma tendono a
fare le cose a modo loro”.
“Che significa fare le cose a modo loro?”
“Che la madre di Masaniello quando si è sposata era
incinta da tempo. In un’altra area della città sarebbe stato uno scandalo condannato
da tutti, invece lì il popolo considera normale giacere insieme tra promessi
sposi prima di essersi assunti la responsabilità reciproca davanti a Dio col
patto sacramentale del matrimonio”.
“In Inghilterra questo è un argomento molto
delicato. La nostra virginia regina Elisabetta ci ha lasciato in eredità una concezione
dell’onore, e particolarmente di quello delle donne, strettamente legato alla
castità. Anche per gli uomini è importante il rispetto del sesto comandamento:
un uomo che frequenta prostitute è considerato come un ubriacone, un ladro, un
vagabondo, uno che non è degno di credito e stima; un uomo che tradisce abitualmente
la moglie è allontanato da circoli e club, e non può aspirare a incarichi di insegnamento.
La continenza per noi è prima tra le virtù cristiane, mentre per voi, mi sembra,
contino di più la povertà e l’obbedienza.”
“Forse è vero, ma personalmente credo che ciascuna
delle tre sia un dono di Dio e, come ogni Suo dono, è anche una prova. Come
è stato Cristo stesso dono del Padre e prova di sacrificio per la
redenzione, siano anche una prova per la nostra purificazione, nella quale sono
tre aspetti della stessa dedizione a Dio.”
“Tre doni, che sono tre prove della stessa fedeltà. Buona
risposta – osserva l’Inglese – voi Italiani siete più bravi o forse più
abituati a tradurre la teologia in insegnamento pastorale. Ma ora è il caso di
riprendere la tua storia; ti ho interrotto sull’ammirazione di Filomarino per Masaniello e non mi hai detto se il
Privilegio di Carlo V si è irrimediabilmente perduto”.
“Hai ragione: torniamo a quei giorni di luglio 1647.
Siamo giunti al punto in cui si delineano più chiaramente i ruoli di Genoino
quale mente politica e Masaniello quale capo esecutivo e militare. Infatti, il biondo
pescatore impone la scelta a tutta la città: o con noi o contro di noi. Entro due
giorni tutte le case di coloro che aderiscono alla rivolta dovranno esporre lo
stemma reale e l’insegna del popolo, altrimenti saranno considerate nemiche”.
E qui continuiamo riproponendo la ricostruzione del filo
narrativo del professore napoletano.
Dopo aver requisito cannoni, alabarde e archibugi
dalle navi, i capi della rivolta sono determinati alla conquista militare del
potere; forti del programma redatto dal sacerdote giurista, ritengono di sapere
come condurre il governo economico della città. Il viceré sa che l’unico modo
per fermarli senza chiedere l’invio di un esercito dalla Spagna e combattere
una sanguinosa guerra civile è fornire il Privilegio di Carlo V, e allora
questa volta tenta una falsificazione artistica: incarica dei miniatori di talento
di realizzare una pergamena miniata con lettere d’oro, sperando di riuscire a
ingannare Giulio Genoino. Il nuovo falso viene consegnato al principe di Roccella.
Don Gerolamo II Carafa, principe di Roccella, veniva
da una famiglia iscritta nel libro d’oro dei nobili napoletani, originata come
ramo della famiglia Caracciolo nel XIII secolo, in particolare dal patrizio del
Seggio di Nilo Gregorio Caracciolo Carafa, ed era già feudataria all’epoca di
Carlo I d’Angiò[45].
Il principe e sacerdote Carafa di Roccella, con il suo seguito e la pergamena a
miniatura aurea, lasciò in carrozza la Villa Carafa di Posillipo e raggiunse la
chiesa del Carmine.
Don Giulio Genoino si accorse immediatamente che si
trattava di un falso, ma dovette durare fatica per evitare che il nobile
prelato fosse linciato o, quantomeno, picchiato come il duca di Maddaloni. La
risposta di Masaniello e del suo esercito irregolare fu incendiare tutte le
case dei profittatori di regime e di coloro che non avevano esposto i segni
dell’adesione alla rivolta.
A questo punto, l’arcivescovo Ascanio Filomarino si rende conto che ormai si rischia un massacro
e che Ponce de Leon non può più andare avanti a ingannare il popolo in quel
modo, e decide che non avrebbe lasciato il palazzo senza aver ottenuto dal duca
d’Arcos un’assunzione delle proprie responsabilità e una decisione da
governante, ossia o cedere realmente e lealmente alle richieste del popolo o accettare
la guerra civile.
Filomarino entra in
Castel Nuovo e riesce a raggiungere gli appartamenti in cui il viceré si era
barricato – a quanto pare preoccupato solo della propria incolumità fisica[46] – e,
quando gli può parlare, gli fa un quadro esaustivo di tutto quanto era accaduto
in città nei due giorni precedenti e in questo che è il terzo giorno della rivolta.
Chiarisce che Genoino conosce bene la pergamena di Carlo V e tutti i tentativi
di ingannarlo sono stati un’inutile perdita di tempo che ha ancor più esasperato
il popolo. Il viceré capisce che non ha di fronte un manipolo di lazzari individualmente
pericolosi perché senza scrupolo ma collettivamente inconsistenti perché
ignoranti e disorganizzati: alla rivolta prendono parte anche nobili, prelati e
molte persone in grado di esercitare mediazione diplomatica e chiedere l’aiuto
di eserciti stranieri, come quello francese. È il 9 di luglio e il Privilegio
di Carlo V, quello autentico, finalmente salta fuori: il duca d’Arcos lo
consegna nelle mani di Ascanio Filomarino, che va di
filato alla chiesa del Carmine e dà a Masaniello la pergamena, poi entra con lui
e assiste alla reazione di giubilo di Giulio Genoino: si tratta del documento
autentico di Ferdinando il Cattolico confermato nel 1517; raccoglie le
felicitazioni di tutti, ma sa che ora deve avviare un’altra trattativa, la più
difficile, e anche in questo caso decide che non andrà via fino a quando non si
sarà concluso l’accordo.
Filomarino è chiaro
con Masaniello: “L’ottenimento del Privilegio vuol dire fine delle ostilità: da
questo momento non si incendiano più case e noi porteremo avanti il nostro
progetto di giustizia nel rispetto delle leggi vigenti, sostituendo le autorità
destituite e rispettando il viceré”. Masaniello non si fida di Ponce de Leon,
ma non vuole deludere Filomarino, al quale è
riconoscente e chiede: “Chi mi garantisce che col popolo disarmato d’Arcos
rispetta i patti?”
“Ti rispetta come Capitano del Popolo e noi designiamo
il nostro fidato amico comune Francesco Antonio Arpaja
come Eletto del popolo al posto di Naclerio.” Lo rassicura il porporato.
“E la Consulta? E tutti gli incarichi che abbiamo
dato?”
Allora Filomarino spiega
che bisogna mettersi subito a lavorare tutti insieme e stilare un documento
attuativo del Privilegio, discutendo e mettendo ai voti ogni proposta e decisione.
Così andarono avanti fino alla sera del 10 luglio, e
poi ancora durante la notte tra il 10 e l’11. Quando finalmente trovarono l’accordo
su tutto, la mattina dell’11 di luglio, Masaniello, Arpaja
e Filomarino, montati su tre cavalli, tra due ali di folla
esultanti percorsero al passo il tragitto dalla chiesa del Carmine a Castel
Nuovo per trattare la tregua col viceré[47].
“Great! – Esclama l’Inglese – Well done! A wonderful happy end.”
“Eh no, non è ancora finita!” Comunica il Napoletano.
“Alludi alla peste come castigo divino per la
ribellione del popolo?” Azzarda lui.
“No, al prosieguo degli eventi del luglio 1647 – Spiega
il Partenopeo – e credo che la nostra peste sia dovuta a incuria umana: venuta
dalla Spagna in Sardegna e lì, dove è stato ignorato tutto lo studio di un
medico che aveva spiegato nella precedente epidemia come difendere le città ed
evitare ogni contatto, si è diffusa ed è stata portata per mare sulla costa[48]. A
Napoli è giunta dal casale di Frattamaggiore, dove nessuno si teneva lontano
dagli appestati. No, noi siamo convinti che la peste non sia stata un castigo come
quelli che leggiamo nel Vecchio Testamento e che non abbia rapporto con le
vicende politiche.”
“Mi chiedo
perché gli uomini si comportino così. Non è cristiano ribellarsi. Gesù non si è
ribellato ai suoi aguzzini.” Riflette l’ospite anglosassone.
“Perché voi, a Oxford, porgete sempre l’altra guancia?”
Chiede retoricamente il Partenopeo.
“No, ma sbagliamo. Per questo ho detto ‘gli uomini’
in generale. Non siamo capaci di perdonare le offese.” Chiarisce il legato oxfordiano.
“In questo caso non si trattava di perdonare un’offesa,
ma di una questione di sopravvivenza: non poter comprare la frutta avendo già
rinunciato al pane troppo caro e, per la gabella sulla farina, anche
impossibile da fare in casa.” Fa notare l’interlocutore.
“Non potevano fare nemmeno la pastasciutta che voi,
in Italia, avete dal 1259, quando Marco Polo la portò dalla Cina: è vero?”
“Per la verità, quello importato da Marco Polo è un
modo per fare gli spaghetti. A Napoli la pasta c’è sempre stata, perché era
nella tradizione culinaria degli antichi Greci; ad esempio, nel V secolo a.C. Aristofane
nelle commedie già riferisce questa ricetta popolare a Napoli: su quadrati di
sfoglia di pasta si mette carne o verdure cotte e tagliate, li si ricopre con
quadrati di sfoglia identici, si suggella e si fa essiccare.”
“Ne parla già Aristofane, il precursore del nostro teatro
comico! Non sapevo di questa pasta. Ma, tornando alla rivolta, capisco e
apprezzo più Filomarino che Genoino. Filomarino ha ottenuto il diritto del popolo, salvando la
vita del viceré ed evitando altri spargimenti di sangue”.
“Giusto, ma senza Genoino non ci sarebbe stato il
capopopolo Masaniello da lui istruito, sarebbe mancata una direzione e un
programma politico; senza contare che Genoino era l’unico a conoscere la
pergamena di Carlo V”.
“Filomarino ha fatto un
ottimo lavoro senza tradire i principi cristiani.”
“Filomarino ha agito come
un grande diplomatico, ma ha potuto farlo perché alle sue spalle c’era Genoino,
che ha avuto il ruolo di un monarca, sia pure dietro le quinte, indicando cosa
bisognava fare e governando la forza e il potere contrattuale dell’esercito messo
su da Masaniello.”
“Comprendo: senza Genoino e Masaniello, Filomarino non avrebbe potuto fare molto, e forse si sarebbe
limitato a chiedere senza ottenere nulla.”
“Infatti. Ti leggo un altro passo da una lettera scritta
in quei giorni da Filomarino a Papa Innocenzo X, in
cui dà merito a Masaniello per la felice conclusione degli accordi e per la
definizione del piano politico comune:
La confidenza e l’osservanza e il rispetto ch’egli
ha avuto in me, e l’ubbidienza che ha mostrato in ordinare e fare eseguire
tutte le cose che gli venivano dette e suggerite da me, è stato il
vero miracolo di Dio in questo arduo negozio: il quale era altrimenti impossibile
di condurre a fine in così poche ore, come si è fatto, con tanta lode e gloria
di Sua Divina Maestà, e della Beatissima Vergine, che l’hanno guidato, e protetto
ed assistito, a me nelle vigilie, fatiche e diligenze impiegate”[49].
“Si avverte una profonda spiritualità, che molto
raramente ho riscontrato nei prelati inglesi”.
“Ah, davvero? Sono lieto che, in questo paradiso di
diavoli, almeno un angelo tu possa incontrarlo.”
“Lo conoscerò con piacere. Ora mi chiedo, dopo la vittoria
del popolo di Masaniello e la pace fatta col viceré, cosa possa essere accaduto
che meriti l’espressione del viso che hai fatto quando hai detto che quella non
era la fine della storia, con un tono che sembrava alludere che ‘il bello deve
ancora venire’?”
“Hai presente alla mente quel Diomede V Carafa, l’altezzoso
e antipatico Mustaccio che aveva preso a calci Filomarino
ed era stato picchiato a sangue per aver portato a Masaniello un documento falso?”
“Perfettamente!”
“Lo immagini come uno che porge l’altra guancia?”
“No di certo!”
“Ecco, aveva meditato vendetta. Mentre il popolo si
accordava col viceré, lui aveva posto in essere un suo diabolico piano.”
[continua]
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella
Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso
che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno
nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-18 dicembre 2021
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La Società Nazionale
di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience,
è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data
16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1] Francesco Bacone (1561-1626)
narra in New Atlantis di 51 viaggiatori partiti dal Perù che,
naufragando, scoprono un’isola dove il popolo cristianizzato grazie a una Bibbia
inviata da San Bartolomeo vive in perfetta pace, sapienza, scienza, amore e
giustizia. Da non confondersi con Ruggero Bacone (1220-1292), allievo del
fondatore di Oxford, Roberto Grossatesta (v. dopo nel
testo), che fu filosofo, scienziato e teologo detto Doctor Mirabilis, riconobbe
per primo la scomposizione della luce in un bicchier d’acqua e impiegò le
misure di spettro per studiare l’arcobaleno.
[2] Nell’inglese dell’epoca la frase
suonava un po’ come “ridurre il benessere e aumentare la povertà (i pidocchi)”.
Cit. in Carl Zimmer, Soul Made Flesh – The Discovery
of the Brain and How It Changed the World, p. 123 (TdA), Free Press (Simon &
Schuster), New York 2004.
[3] Carl Zimmer, op. cit., p. 123.
[4] Cfr. Carl Zimmer, op. cit., idem.
[5] Carl Zimmer, op. cit., p. 123, (TdA).
[6] Carl Zimmer, op. cit., p. 126.
[7] Per quanto abbia cercato con
cura, non ho trovato traccia dell’identità dell’inviato nel materiale storico
che ho potuto consultare, rimanendo convinto della necessità di condurre ricerche
d’archivio in Inghilterra, menzionerò senza nome e cognome il protagonista di
un viaggio che mi sembra sia stato importante per il Circolo di Oxford, anche
se negletto dalla storia perché privo di valore diplomatico o politico e non
legato a particolari eventi di rilievo.
[8] Il dialogo che segue è tratto da
carte d’archivio del Seicento, in particolare da un epistolario. La lettera in
cui si racconta del viaggio e da cui sono estratti i contenuti qui proposti,
ritenuta priva di interesse storico perché non è stato possibile risalire alle identità
di scrivente, destinatario e protagonisti del dialogo riferito, contiene alcuni
concetti che mi sono parsi così profondi e rappresentativi di questioni problematiche
del tempo, che non ho saputo rinunciarvi. L’adattamento in italiano corrente mi
sembra conferisca una migliore leggibilità.
[9] Il referente della
moderna linguistica.
[10] In realtà, Pierre Jurieu è rimasto un autore noto solo a una ristretta
cerchia di specialisti. Una trattazione dei problemi da lui affrontati si trova
in Anna Minerbi Belgrado, Sulla crisi della
teologia filosofica nel Seicento – Pierre Jurieu e
dintorni. Franco Angeli, Milano 2008.
[11] Nei documenti inglesi il suo
cognome è spesso scritto “Grosseteste”. La data e il
luogo di nascita di Robert Grosseteste sono stati
desunti dalla registrazione di un atto assimilato a quello di battesimo nella
chiesa parrocchiale di Stradbroke, dove non risultano
i genitori. Grossatesta era un cognome diffuso nell’Italia
medievale, pertanto si è ipotizzata la sua nascita in Italia da genitori
italiani poi trasferiti in Inghilterra.
[12] Il pallonetto, gioco praticato
presso la corte medicea già nel primo Rinascimento, fu portato a Napoli dai Fiorentini
ed era praticato con una palla di cuoio contenente un nucleo di piombo
rivestito di lana e gomma. Le tre zone della città che avevano preso il toponimo
dal gioco erano il Pallonetto di Santa Lucia, il Pallonetto di San Liborio e il
Pallonetto di Santa Chiara. Da un punto di vista urbanistico sono costituiti da
stradine ripide gradinate che interrompono la struttura a terrazze della città
e collegano le parti alte all’abitato storico a quelle del centro e della costa;
connessi col dedalo di vicoli di età greco-romana, erano sede di dimore e commercio
del popolo minuto.
[13] La Tavola Strozzi, una
tempera su tavola custodita al Museo Nazionale di San Martino, era in origine
la spalliera di un letto disegnato da Benedetto da Maiano, giunto a Napoli da Firenze
con Giorgio Vasari e Antonio Rossellino per la fabbrica di Sant’Anna dei Lombardi,
finanziata dalla filiale napoletana della banca fiorentina degli Strozzi. Il dipinto
è attribuito all’incisore fiorentino Francesco Rosselli.
[14] La data, incerta ma posteriore
al 511 d.C., segna la fine
del periodo imperiale e l’inizio del Medioevo.
[15] La denominazione Pizzofalcone risale alla metà del Duecento, quando Carlo
I d’Angiò vi fece costruire una falconiera per la caccia reale dei falconi. L’indicazione
toponomastica di “Monte di Dio” è ancora conservata dai Napoletani, anche se la
chiesa e il convento non esistono più.
[16] È il mastodontico edificio che
ospita il Museo Archeologico Nazionale di Napoli che, fino alla seconda metà del
Novecento, è stato il più grande museo archeologico del mondo e oggi rimane il
più importante in assoluto per l’arte romana. Costruita nel 1585-86 come sede
della più grande cavalleria militare dell’epoca, nel 1612 per volontà del viceré
spagnolo Pedro Fernando Ruiz (Fernandez) de Castro Andrade y Portugal, conte di
Lemos e grande di Spagna, vi fu trasferita l’Università
di Napoli, che fino allora aveva avuto sede in San Domenico Maggiore.
[17] Nei secoli precedenti, prima
della grande espansione di Napoli avvenuta soprattutto nel Cinquecento, era
stata Palermo la città più popolosa.
[18] Nel Seicento, ma già da secoli, in
napoletano il nome dell’albero, e in generale della pianta, è di genere femminile;
dunque “la pigna” è l’albero di pigne; così una pera in toscano è il frutto, in
napoletano è l’albero, mentre il suo frutto a Napoli è detto lo pero oppure
’o piro. Cfr. Partenio Tosco, L’ECCELLENZA DELLA LINGUA NAPOLETANA – CON
LA MAGGIORANZA ALLA TOSCANA –
per Novello de Bonis Stampatore Arcivescovale in Napoli
1662; cfr. p. 67 dell’edizione anastatica della Fausto Fiorentino Editrice,
Napoli 1984. L’autore di questo studio spiega che il femminile per l’albero è
dovuto a fedeltà al latino del napoletano: hac
harbor.
[19] Fu sostituito dal Cardinale Gaspare
Borgia, che conosciamo nelle sembianze dal celebre ritratto di Diego Velazquez.
[20] Detto anche Foro Magno o Mercato
di Sant’Eligio, in precedenza “campo del muricino”,
perché vicina alla cinta muraria. Dal 1270 gli Angioini ne avevano fatto lo
snodo delle più importanti basi commerciali italiane ed europee, oltre che
volano per lo sviluppo urbanistico della fascia costiera napoletana (cfr. Sosia
Capasso, Vendita dei Comuni e vicende della Piazza Mercato a Napoli, Istituto
di Studi Atellani; Vittorio Gleijeses, Questa è Napoli, I, p. 164, Fausto
Fiorentino Editore, Napoli 1967).
[21] Vittorio Gleijeses, La Storia
di Napoli – dalle origini ai nostri giorni, p. 599, SEN, Napoli 1977.
[22] Vittorio Gleijeses, op. cit., p.
600.
[23] Il nostro pescatore era Tommaso
Aniello d’Amalfi detto “Masaniello”, Napoletano nato al Vico Rotto al Mercato,
proprio nei pressi della Piazza Mercato dove avvennero questi fatti. Il cognome
del padre “d’Amalfi” colpì la fantasia di molti e diede luogo ad un’aneddotica
sulla sua origine amalfitana, costituita da vere e proprie invenzioni senza
fondamento. Già nel 1896 il poeta Salvatore di Giacomo, per smentire questa fola,
pubblicò l’atto di battesimo di Masaniello custodito nella chiesa di Santa Caterina
al Mercato detta allora Santa Caterina in Foro Magno. Erano molti i cognomi nell’Italia
meridionale che derivavano da soprannomi: il soprannome “d’Amalfi” poteva tanto
indicare la provenienza, quanto significare “abile nocchiero” per la fama che
avevano i marinai della Repubblica Marinara di Amalfi. Sul muro esterno della
casa al Vico Rotto dove Masaniello nacque e fu Capitano del Popolo oggi vi è
una lapide con un’iscrizione che lo ricorda.
[24] Vittorio Gleijeses (op. cit., p.
600) propone questa traduzione in italiano: “Niente gabelle, morte al malgoverno,
viva il re di Spagna!”. Il nostro originale in napoletano è riportato in molte
cronache dell’epoca.
[25] Alessandro Giraffi,
Ragguaglio del tumulto di Napoli, Napoli 1648, v. in Le Rivolutioni di Napoli Descritte dal Signor Alessandro Giraffi con pienissimo ragguaglio di ogni successo, e
trattati secreti e palesi. [Manifesto del fedelissimo popolo di Napoli, 17 d’Ottobre
1647] Presso Filippo Alberto, in Venezia 1648.
[26] Vittorio Gleijeses, op. cit.,
idem.
[27] In questa prima irruzione sono i
Lazzari al servizio del popolo ad assaltare il palazzo reale. Prestando fede a
quanto affermato dall’Arcivescovo Ascanio Filomarino
nella sua lettera al Papa Innocenzo X dell’8 luglio (il giorno dopo) lui era
presente, accolto da urla festanti del popolo; infatti scrive: “Li assicurai
che ero per loro, e pronto a spargere il sangue, e per far levare questa e
tutte le altre gabelle; che stessero allegramente; si quietassero e lasciassero
fare a me, che avrebbero avuto gusto” (Ascanio Filomarino,
Lettera a Papa Innocenzo X dell’8 luglio 1647 – copia d’archivio).
[28] Vittorio Gleijeses, op. cit., p.
600.
[29] A parte il fratello Giovanni,
che fu tra i capi della rivolta, e la moglie Bernardina Pisa, che anche se
molto più giovane ebbe un ruolo rilevante nei moti, vi erano Marco Vitale,
dottore in legge amico di Genoino, Francesco Antonio Arpaja
vecchio e fidato amico comune del sacerdote e del pescatore, e Savino Boccardo,
frate carmelitano e raffinato interprete della teologia dell’agape. Ma l’immagine
negativa, sfruttata dai detrattori, fu data dalla partecipazione dei Lazzari
(o Lazzaroni), così appellati dagli Spagnoli perché cenciosi come il Lazzaro
evangelico, in realtà costituenti un gruppo sociale che viveva di espedienti e
contestava l’ordine costituito.
[30] Seguendo la ripartizione dell’antica
Partenope greca, Napoli era suddivisa in ottine,
per la precisione 29 ottine con altrettanti capi o capitani
che, nel Seicento, avevano il ruolo politico di mediare tra la cultura legale della
tradizione locale e quella del dominatore spagnolo.
[31] Giuseppe D’Alesi o D’Alessi (1612-1647),
formato come carabiniere, ossia cavaliere scelto munito di carabina, e divenuto
rivoluzionario, tornò a Palermo, dove il 12 agosto 1647 promosse la rivolta e, quale
“Masaniello di Sicilia”, ebbe al suo fianco Pietro Novelli, il più grande
pittore e architetto siciliano, che morì combattendo.
[32] Vittorio Gleijeses, op. cit., pp.
600-601.
[33] Cfr. Vittorio Gleijeses, op.
cit., p. 601.
[34] Vittorio Gleijeses, op. cit., idem.
[35] Posillipo, quartiere collinare
di Napoli che scende come un promontorio sul mare delimitandone il golfo;
abitato dai Greci che lo denominarono Pausilypon
in quanto “tregua dal pericolo” delle tempeste in mare, in epoca romana vi
costruì la sua villa Publio Vedio Pollione,
consigliere di Augusto, che ne divenne il proprietario alla morte di Pollione.
Attualmente, Villa Rosebery a Posillipo è residenza
estiva del Presidente della Repubblica Italiana.
[36] Era stato nominato anche conte
di Cerreto Sannita con un colpo di mano; un suo ritratto si trova in Vincenzo Mazzacane,
Memorie Storiche di Cerreto Sannita. Liguori, Napoli 1990.
[37] Fu ordinato cardinale a
arcivescovo metropolita dal fratello di Papa Urbano VIII, ossia il Fiorentino
di Piazza Santa Croce Antonio Marcello Barberini, nel 1641 e rimase in carica
fino alla morte, avvenuta nel 1666. In realtà, fin da giovane Filomarino era amico di Maffeo Barberini (Urbano VIII) e
conosceva tutta la famiglia e le vicende galileiane; aveva avuto incarico di
accompagnare il giovane nipote del Papa, Francesco Barberini, in Francia e
Spagna con le delegazioni pontificie nel 1626 (cfr. Massimo Bray, Dizionario
Biografico degli Italiani, Vol. XDVII, Treccani 1997).
[38] Vittorio Gleijeses, op. cit.,
idem.
[39] La narrazione storica vuole che
sia casuale (“il caso volle che in quel momento si trovasse a passare” Vittorio
Gleijeses, p. 601), ma è ragionevole supporre che non lo fosse, per varie
ragioni. Il luogo, lontano del centro cittadino, era al tempo appartato e non certo
“di passaggio”; il Filomarino, da difensore del
popolo, era bene informato di quanto stava accadendo e, con buona probabilità,
aveva saputo che l’esercito popolare si stava dirigendo a Posillipo; non si può
nemmeno escludere che, per proprio conto, stesse recandosi dal viceré.
[40] Vittorio Gleijeses, op. cit., p.
601.
[41] Chiesa gotica inglobata nell’antica
struttura del duomo di Napoli, la Basilica di Santa Restituta, di origine
paleocristiana, contiene il fonte battesimale più antico d’Occidente, dove
accorrevano in tanti per il battesimo dei propri figli (Ugo Dovere, Il Duomo
di Napoli, p. 81, Editrice Velar, Bergamo 1996).
[42] Era un ruolo ordinario della
corte papale, abolito con la corte stessa solo nel 1968 da Papa Paolo VI.
[43] Ascanio Filomarino,
Lettera a Papa Innocenzo X del 12 luglio 1647 – copia d’archivio.
[44] Aurelio Musi, La rivolta di
Masaniello nella scena politica barocca, Guida Editori, Napoli 1989. Da
questa descrizione si desume che Masaniello non fosse particolarmente alto, ma
biondo e abbronzato e, considerato che “pellegrino” nel Seicento si usava per
dire esotico, possiamo desumere che il suo aspetto non fosse esattamente
quello del rozzo e trascurato straccione di cui si legge negli scritti di
aristocratici conservatori filogovernativi.
[45] Notizia tratta dall’Archivio di
Stato di Napoli.
[46] Cfr. Vittorio Gleijeses, op.
cit., p. 601.
[47] Cfr. Alessandro Giraffi, Ragguaglio del tumulto di Napoli, op. cit.
[48] Gli Spagnoli non avevano un’organizzazione
sanitaria come gli stati della penisola italiana. Il medico sardo che, dopo la
peste del 1582, aveva definito i principi profilattici era Quinto Tiberio Angelerio, autore di Epidemiologia, sive,
tractatus de peste, ad Regni Sardiniae
progeren., ex Tipographya
Regia, Madrid 1598, un volume di 110 pagine, 98 delle quali scritte in latino per
la diffusione alla comunità medica internazionale e 12 in catalano per le
autorità spagnole. Si veda anche in Sergio Atzeni, Gli anni della grande
peste, Cagliari 1995 (ripreso da Francesco Montanaro, La peste del 1656
nel casale di Frattamaggiore: i fatti nei documenti originali dell’epoca in
Istituto di Studi Atellani, Raccolta Rassegna Storica dei Comuni, vol.
22, 2008).
[49] Ascanio Filomarino,
Lettera a Papa Innocenzo X del 12 luglio 1647 – copia d’archivio.